Tutto quel soffitto bianco, con le decorazioni di stucco, è soltanto un grande spreco. Tutta la casa è uno spreco, roba che mi viene voglia di prendere e dare fuoco a tutto quanto. L'unico motivo per cui non lo faccio è che magari prima o poi verrò a viverci qua dentro. Quindi ho poco da fare la furba. Era roba di mia nonna, anche se i mobili non ci sono più ed il pavimento di legno fa schifo.
Quel cacchio di lampadario. Troppo chiaro, troppa luce. Perché fare un lampadario d'argento dico io.
Le mie dita si muovono per conto loro, accarezzano le schegge di legno, sfiorano le più aguzze, come quelle che si sono attaccate al mio maglione di lana grossa appena ho toccato il pavimento. Se chiudo gli occhi e qualcuno entra penseranno che sono svenuta, ma io non sono svenuta. Mi piacerebbe tanto perdere conoscenza, anche solo per un minuto, sono due notti che non dormo. Mi sono addormentata sull'autobus venendo qui. Per fortuna avevo detto all'autista dove dovevo scendere.
Una signora mi ha chiesto se ho mangiato e io le ho detto che stavo andando da mia nonna per pranzo. Perchè dico bugie a tutti quanti? Cos'ho che non va?
Adesso va meglio però. Sono sdraiata qui e nessuno mi chiede niente. Ho lasciato la porta socchiusa, ho troppa paura di restare chiusa dentro. Lo so che ho le chiavi in tasca ma non c'entra. È una questione di principio.
Dove sei? Dove sei adesso? Con chi sei? Che cosa stai facendo?
Ho bisogno di parlarti, di raccontarti che cosa sto facendo io. Ho bisogno che tu mi veda, qui, sdraiata sul pavimento. Ho bisogno che tu veda gli stucchi e i buchi delle porte, e la luce violenta che entra dal corso. Ho bisogno che tu senta sulla lingua il gusto della polvere scaldata da questo sole di agosto come la sento io in questo momento.
Perché mi ritrovo a parlare sempre con te? Anche quando sono da sola? Perché non mi lasci in pace?
Ho voglia di farmi del male, come mi sono fatta del male quell'altra volta e tu mi hai trovata in casa dei miei e mi hai portata via. Che cosa mi ferma? Certi momenti penso che sei andato via solo perché sapevi che non avrei più avuto il coraggio di farmi del male ora che non c'era più nessuno che potesse salvarmi. Sì e no. Lo scoprirò presto, se c'è qualcuno che mi salva, sulla mia pelle come al solito. Mi fanno male le spalle, lo zaino é troppo pesante e io sono troppo piccola. Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a portarlo.
A diciannove anni, dovrei essere più furba, dovrei avere imparato tante cose. Mia zia me l'ha detto la settimana scorsa, proprio tu che sei tanto intelligente, perché non ti tiri su. Non c'è motivo.
Adesso che so che non c'è motivo, sto proprio meglio, guarda.
Ho voglia di gelato al limone senza zucchero. Aspro e ghiacciato. Lo so che non lo vendono, devo farmelo io.
Ho la tentazione di fare qualcosa che non farei mai. Ho la tentazione di dire il tuo nome. A te il tuo nome non piace, dici che è vecchio, che è il nome di tuo nonno, che lo detesti, che non sei tu. Questo è il problema, secondo me, che invece sei tu. Che non ci puoi fare niente, tu sei quel nome lì, la gente pensa a te con quel nome lì, quando ti ci chiama. Te lo porti dietro come tutto. Non l'ho mai usato con te, ma mia sorella mi ha chiesto come ti chiamassi, ieri. Per questo mi ci ha fatto pensare.
Ma io adesso lo dico. Qui, in questa stanza vuota.
“.....”
Visto? Non era tanto difficile. Posso anche dirlo più forte, o più piano, o lentamente. Tutta la stanza intorno a me si riempie del suono delle vocali e delle consonanti. Dovrei scrivere una canzone, da accompagnare con la chitarra, e usare come testo solo il tuo nome, ripetuto, per tutto il tempo, finché non diventa un suono, finché non diventa senza senso. Anche la tua foto sul giornale, sotto c'era il tuo nome vero. Però ho pensato che è un peccato, perché se penso a te, penso a uno che è scintille e fiamme, che se parla tutti lo ascoltano, uno che brucia di un fuoco suo, no? E quella foto lì in bianco e nero, in nero e grigio, sembra un po' la foto di qualcuno che è morto o che in ogni caso è stato bloccato in una forma, che ha quella faccia lì e non la può più cambiare. Capisci cosa intendo? Sì, che lo capisci, ma non hai più voglia di starmi a sentire.
Mi stanno cercando, lo so. Ma se mia sorella non fa la stronza e non gli dice che mi ha dato le chiavi non mi troveranno. Non immaginerebbero mai che ho cambiato due autobus e sono venuta qui. Sono senza mutande. Non le ho trovate nell'armadio, ma per fortuna c'era un paio di pantaloni, perché con una gonna sarebbe stato imbarazzante. Se giro la testa posso vedermi un pezzo dentro agli specchi contro il muro. Devo tagliarmi i capelli. Posso farlo da sola, se solo li convinco che possono darmi un paio di forbici. Non sono pericolosa, né per me stessa né per gli altri.
Soprattutto non per te.
Non so se dopo che ho detto il tuo nome sto meglio o sto peggio. Mi sento come se continuassi ad aprire delle porte e mi aspettassi sempre di trovare qualcosa, ma dietro una porta c'è sempre un'altra porta. Magari c'è un po' di posto dietro, ma vedo che non è nè una stanza chiusa, nè uno spazio aperto, solo un corridoio con un'altra porta.
Vorrei avere un castello, o una casa con tanto spazio. Vorrei poterla riempire di cose, ma che ci sia poi ancora spazio per potermi sdraiare sui tappeti e sentire l'odore di ogni angolo, vorrei rendere a mia misura uno spazio che mi sembrava infinito. Vorrei avere una misura per le cose, che gli dia un senso. Anche oggi, sull'autobus, tutte quelle persone. Nessuno che io avessi mai incontrato, ma com'è possibile che al mondo ci sia così tanta gente e noi viviamo conoscendo mille, duemila, magari tremila di loro? Gli altri non ci sfiorano, non li possiamo toccare.
Come fa una persona sola a diventare tanto importante? Come fai a essere dentro a un pensiero su due che faccio? Come mai ti vedo dappertutto? È la solita fregatura, ho passato troppo tempo con te, mi sei entrato sottopelle, e adesso devo aspettare. Ma io non sono brava in niente, figuriamoci ad aspettare. Le attese mi rendono nervosa, comincio a mangiarmi le unghie e finisce che non mi ricordo più di me, che non so più cosa sto facendo.
Bevo.
Vodka, vino, grappa, gin, la birra no, non mi piace, un martini, un coca e rum, uno shottino.
Mi hanno detto che i miei esami del sangue sono brutti, ma mai quanto le loro facce. Si facessero i cazzi loro, sempre a guardar dentro alla gente, ma non si sentono mai in imbarazzo, con tutta questa intimità? Raccontami com'era a casa tua quando eri bambina. No, non si stava così male. No, nessuno mi picchiava, no, mio padre non mi ha mai abusata. Non toccava mia madre, figuriamoci se avrebbe toccato me. Ok, i miei non avrebbero mai dovuto sposarsi e fare figli. Pace, me ne faccio una ragione. Tutti questi dottori preoccupati. Ma preoccupati di che? Sono vostra parente? Ma ci siamo mai incontrati prima? Mi vedono un'ora e dicono che sono preoccupati per me. Che sono tanto giovane. È vero, sono giovane, ma pure voi siete stati giovani, non è una malattia incurabile, si cura invecchiando, e invecchierò anche io, tranquilli, non preoccupatevi per me. Sto bene. Mi manca solo una persona.
Guarda che se non torni io il tuo nome lo dico ancora.
“.....”
Visto? Vedi che posso essere cattiva e fare delle cose che non ti piacciono? Ho detto il tuo nome in questa stanza vuota. Non mi aspetto di evocarti, di farti apparire qui davanti allo specchio, proprio tu che non rispondi più neanche al telefono. Mi fa ridere che dicono che sto male perché tu te ne sei andato via. Prima stavo uguale e non lo chiamo “bene” e non lo chiamo “male”. Sto così.
Come stai? Così.
Ti rispondevo sempre in questo modo, e restavo seria. Tu mi sorridevi. Sempre, tutte le volte, come se mi avessi voluto insegnare, come se non fossi capace a sorridere, a io sono capace, solo che la maggior parte del tempo è inutile. Alla signora sull'autobus che mi ha chiesto se ho mangiato, ho sorriso, ad esempio. Quindi sono ancora capace, ecco.
La cosa che mi dà più fastidio è essere un cliché. La ragazza giovane che soffre per amore, che beve e non sorride mai. Che cavolata. E poi non è colpa mia se sento tutto troppo forte e ogni tanto ho bisogno di un po' di anestesia locale. Anestetizzo il cervello, mi confondo un po' da sola. Non vi siete accorti di quanto è tutto netto là fuori, tutti quanti? Di quanto il sole bruci, di quanto i colori siano troppo forti, e la gente o parla troppo forte o non parla per niente? Per me siete tutti pazzi, andate in giro come foste degli zombi, e poi ricoverate me in ospedale solo perché mi ero bevuta una bottiglia per poter finalmente dormire un po'. Tentativo di suicidio l'hanno chiamato. State tranquilli che se mi voglio ammazzare vi avverto prima, vi faccio radunare tutti quanti e poi mi sparo con la pistola che non ho. Vi piace di più così?
Io non mi voglio ammazzare manco per niente. Però è tremendo che sono me stessa solo quando sono sola. Che mi dico le cose come stanno, che non racconto storie. Anche a te, quante storie ti ho raccontato? Te ne ho raccontate tante in modo che anche tu dovessi andare in giro tra i fantasmi, senza sapere più bene cosa fosse vero e cosa no. Ho fatto finta di vedere e credere a cose strane. Ho fatto finta un sacco, e ho voluto vedere se qualcuno mi prendeva sul serio.
Però non è giusto che tu sei partito e io sono rimasta qua. Io credo che un po' sia quello sai, che non mi fa dormire. Che tu te ne sei andato via veramente. Che poi a parte il fatto che tu non mi ami e tante altre cose che si dicono alla fine di una storia già finita da tempo, è una cosa fisica, no? Non ci sei. Non sei qui. Non sei raggiungibile a piedi, a meno di non volerci mettere troppo. Io non ho la patente perché sono pigra, e non ho i soldi per comprare un biglietto e venire da te. Questo blocco mi spaventa, il fatto che sei riuscito a rendere possibile l'impossibile. Che hai messo qualcosa di concreto di mezzo.
Io mi rendo conto che prima o poi forse la vita vera arriva, che anche io magari raggiungerò l'illuminazione, che tutto diventerà chiaro, e sarò scema e felice come le ragazze che parlano al cellulare sul tram. Però il problema mio è che non so quando, ed è questo che innervosisce, di quando la gente dice che un giorno capirò e piangerò dei miei errori. Io dei miei errori piango già adesso, ma se non so quando la mia vita viene finalmente da me, e non sempre io verso di lei, non so come fare a smettere di farli. Ormai ho troppi segreti. Ci sono diventata vecchia a forza di tutti questi segreti, a forza di non aver avuto due giorni uguali, di aver fatto la vita del cane randagio. Ma i cani randagi non vanno lontano, sono uccelli di voliera, né piccioni viaggiatori, né tantomeno falchi migratori, sentono l'odore di casa e il guinzaglio che li tira anche quando se lo sono tolto. Gli piace dormire nella cuccia ogni tanto e sentire il bastone del padrone sulla schiena, anche quando il padrone non ha più voglia di picchiare, o ha penso la speranza e ha comprato un altro cane.
Io adesso sono qua, che mi squaglio dal caldo su un pavimento di una casa disabitata, me lo dici tu che cosa ci faccio qui? Sono talmente disadattata che faccio le cose e non so neanche bene il perché. Ma lo devo scoprire da sola, non è che mi può aiutare nessuno. Cioè, forse sì, potrebbero aiutarmi, ma dovrebbero vedermi adesso, dovrebbero sentire quello che penso, dovrebbero leggere il mio diario e tante altre cose ancora. Dovrebbero essere entrati insieme a noi nelle case quando le porte sono socchiuse, dovrebbero aver assaggiato il cibo rubato nei negozi di lusso, dovrebbero essersi addormentati sui marciapiedi come faccio io quando non ho i soldi per il taxi il sabato sera e ho bevuto troppo. Allora forse capirebbero, e mi direbbero che delle cose così le hanno fatte anche loro, e allora si potrebbe parlare. Però fino a quel momento lì, mi resterà il dubbio che le ho fatte solo io, che sono sola, contro di loro. Con te era diverso, perché mi avevi vista, e perché te ne sei andato via ancora non lo so. Forse perché anche io avevo visto te e ti sei preso paura, o hai deciso che era meglio essere come loro che come me.
Intanto io continuo a parlare con te, come una pazza. Tutta la mia vita è con te, tu parti, io aspetto. Com'é che funziona? Adesso io comincio a vedere quelle macchioline davanti agli occhi e a sentirmi tanto debole perché ho pensato troppo. Dovrei alzarmi, ma mi sa che non ce la faccio. Che non mi va di alzarmi oggi. Sono già andata via da un letto di ospedale, e non sai quante energie mi è costato stare in piedi su un autobus caldo che puzza di gasolio. Però adesso facciamo un patto io e te. Io adesso svengo un po'. Che poi è come se dormissi, no? Che differenza fa, se diventa tutto nero anche mentre ho gli occhi aperti? Io dormo un po' e tu mi guardi, da lontano, e mi dici che va tutto bene.
E sarà proprio come quando eravamo io e te, contro tutti gli altri.
Said your name, in an empty room.
Something I would never do.
You were burning now you're black and grey.
Something I would never say.
I'm alone again.
When I'm by myself, I can be myself,
And my life is coming, but I don't know when.
Toute ma vie, est avec toi.
Moi J'attends, toi tu pars.
[da Empty Room, traccia numero 5 dell'album The Suburbs degli Arcade Fire, uscito nell'agosto 2010 su etichetta Merge]
foto da flickr.com, utente Alex von Auslasen, Presence
scritto da Alberto Lioy tra il 18 e il 20 dicembre 2012