Lo so, è una cosa un po' da stronzi, ma in quel momento lì, mi andava bene.
A forza di sfumare contorni e a cercare forme che sembrassero vagamente qualcosa, mi stava facendo male la mano. Era ora di fermarmi, e di dare un sorso alla mia tazza di caffé. Credo che chiunque avrebbe pensato che ero matto, ma lei no, era lì, tranquilla, che leggeva un libro. Doveva piacerle molto, perché la vedevo sorridere e emozionarsi seguendo i vari passaggi. La guardavo. Con la coda dell'occhio, perché non pensasse che avevo finito o che la prendevo per il culo. In un secondo momento avrei sempre potuto auto-convincermi che io a quel concorso un bozzetto lo volessi mandare davvero.
Lei era carina. Non lo dico nè per vantarmi né per scherzare. Era parecchio carina. Bruna con gli occhi scuri, vitino stretto e capelli di media lunghezza, pelle chiara. Molto molto molto intelligente. Laurea in legge andata come un treno, esami passati, tesi data con un professore con la fama di mangia-studenti, che invece la adorava.
Quel giorno lì aveva finito di lavorare e ci eravamo incontrati al caffé fuori dall'università. Non quella dove avrei dovuto andare io, ma quella dove mi accanivo a voler studiare, anche se era la facoltà di lettere, e non quella di economia.
Ci eravamo conosciuti per caso, quell'estate, e avevamo scoperto che io andavo a fare un master nella sua città. Così ci eravamo tenuti in contatto e ogni tanto ci vedevamo. Lei non conosceva i miei amici, io non conoscevo i suoi. Eravamo andati al cinema una volta, e il film era strano e pesante. La maggior parte delle ragazze che conosco si sarebbero adoperate per farmi capire quanto fanno schifo i film che guardo io, e quanto sarebbe bello guardare film normali.
Invece lei no, si era un po' scusata per il film, ma a me non era dispiaciuto, era stato solo pesante. Lei era rimasta sollevata perché anche lei aveva avuto la stessa sensazione.
L'avevo accompagnata alla stazione degli autobus per l'ultima corsa ed ero andato a casa.
Quel giorno di novembre stavo lì in quel caffé a perder tempo, senza sapere bene cosa fare. Le sorrisi da sopra il foglio e le dissi
“Quasi finito.”
Lei sorrise di rimando, dandomi un senso di genuina comprensione, e di felicità che ci fossi riuscito. Per lei il fatto che uno studente di economia partecipasse a un concorso di grafica era normale. Sospirai, riprendendo a disegnare. Era diversa dalle altre, ma il problema era che non avevo capito se mi piaceva oppure no. Decisi che era il caso di fare qualche passo esplorativo, d'altrone era uscita tre volte in due mesi sola con me. Sarebbe stato stupido non cercare di capirci se poteva venirne fuori una storia.
Erano le sei ed eravamo seduti uno accanto all'altra, su un divanetto.
Misi via il mio taccuino pieno di schizzi inutili e la guardai. Lei posò il libro.
“Che fai per cena?” le chiesi.
“Ho dei parenti a casa, se no sarei rimasta volentieri.” rispose, con aria un po' malinconica.
“Faremo un'altra volta. Ti piace il cibo cinese.”
“Non tanto. Una pizza?”
“Una pizza va sempre bene, ma conosco un posto cinese sopra la media. Magari è solo che hai provato quelli troppo fritti?”
“Ma sì, dai, è tanto che non vado, possiamo fare per un cibo cinese.”
Io presi un altro sorso di caffé, troppo grosso, scottandomi.
“Tutto ok?” fece lei.
“Sì, mi sono bruciato la lingua, che idiota.”
“Capita.” disse asciutta lei.
Avevo la sensazione che qualcuno avrebbe riso, mia madre tipo, e anche i miei amici.
“Comunque tra un po' io devo andare.” mi disse.
Io non potei trattenere un sospiro, per quanto piccolo. Ma come? A momenti ci eravamo appena incontrati e lei già se ne andava? E tutta la mia commedia con il taccuino era servita solo a farmi perder tempo? Al che la guardai e le dissi
“Facciamo due passi, va.”
Lei alzò le spalle
“E il tuo caffè?”
“Fa abbastanza pietà, devo smetterla di ordinare un Americano.”
Lei sorrise e si alzò, lasciandomi passare. Presi le giacche dall'attaccapanni all'ingresso e le porsi la sua. Poi mi affrettai in cassa . Mi girai con la coda dell'occhio e lei si stava ancora mettendo la sciarpa. Meglio.
Quando lei si avvicinò io le feci cenno di uscire.
“Ma come? Non paghiamo?”
E io con un sorriso a bocca chiusa.
“Già fatto, già fatto.”
“Ma no, dai!” protestò lei, ma senza insistere. “Grazie, la prossima volta offro io.”
“Vedremo.” sogghignai.
Mi piaceva offrire alle donne, era una cosa d'istinto, sia per le cifre grosse che per le piccole, una piccola regola, che secondo me faceva il mondo un po' migliore. Avevo sempre pensato che ci fossero talmente tanti imbecilli che screditano il genere maschile che se compensavo con un po' di cavalleria avrebbero solo da ringraziare.
“Da che parte passiamo?”
“Dal lungomare.” le dissi.
“Ok.” fece lei.
Ci incamminammo in silenzio, nel freddo dell'inverno. Le luci dei lampioni, non potendo illuminare coi nostri pensieri, illuinavano i nostri passi. Avrei voluto leggerle la mente, ma non potevo. Mi pareva una che pensava un sacco, ma che cosa pensasse mi sarebbe sempre sfuggito.
Attraversammo la strada per lasciare i bar e camminare a filo dell'acqua, e fu lei a rompere il silenzio.
“È strano, sai? Sono otto anni che vivo qui, da quando ho iniziato il liceo, ma passare qua di fronte non mi ha mai dato l'impressione di essere al mare. Finiscono i bar, finisce la strada, c'è il muro e poi c'è questo.” e fece un ampio gesto con il braccio, oltre me. “Ancora di più adesso che è buio, non mi sembra il mare, mi sembra solo un limite. Oltre qui non facciamo più case, non mettiamo più niente. Limite della civiltà. Invece dall'alto, o da lontano, quando tira vento e lo vedo, mi sembra il mare, mi sembra che tutta questa città ci si raccolga intorno.”
Io la stavo ascoltando con attenzione, e pensavo a quante poche volte qualcuno mi dicesse qualche cosa di originale, qualche cosa a cui non avevo mai pensato prima. Le dissi
“Sì, capisco cosa intendi. Io sono arrivato qui dopo di te, ma ho sempre pensato che questo lungomare fosse solo una strada come le altre. C'è un sacco di traffico, e non hanno mai messo delle panchine! Prima di venire qui non ero mai stato in una grande città di mare, col porto, ero stato al mare solo in vacanza. E ora che mi ci fai pensare, quando penso a questo posto, non penso al mare, non penso nemmeno al pesce. Qui tutti mangiano carne!”
“Forse è per questo che sono diventata vegetariana.” sorrise lei.
“Ma il pesce lo mangi?”
“No, che non lo mangio? Che vegetariano sei se mangi il pesce?”
“Io mangio tutto pesce, carne...”
“Ma, no! Non tu, inteso come tu, tu impersonale. Cos'è un vegetariano che mangia il pesce? Non è mica verdura?”
“Ah ok, scusa, non avevo capito.” risi io.
Lei mi sorrise e poi disse
“Scusa, ti ho un po' aggredito. È solo che ho tante cose da fare in questo periodo e troppi pensieri per la testa. Sono sempre nervosa.”
Fu il modo in cui lo disse che mi colpì, come se avesse voluto essere una persona migliore, più rilassata, per me, in quel momento. Mi fece piacere.
“Un bicchiere di vino?” proposi allora.
“No, dai, mi dispiace, ma già berrò a casa coi miei, e se mia madre mi vede entrare che so di vino comincia già a rompermi le scatole.”
“Peccato che hai questa cena.” continuai io, deciso a non mollare l'osso.
“Sì, peccato, però vedo i miei cugini, che ormai non ci teniamo più in contatto.”
Mi sentivo tenuto in un limbo, come se non potessimo fare un passo avanti, e nemmeno uno indietro. Solo restare così era possibile, probabilmente. Una specie di “siamo amici”, ma non ce lo eravamo neanche detti.
“Comunque, mare o non mare, questo posto mi piace. Ci sono tanti bar, tante cose da fare, mi piacciono le vie, il bel tempo. Non si sta per niente male.” dissi io.
“Io andrei via volentieri.” disse lei, come assorta nei suoi pensieri. Poi si riscosse
“Scusa, lo so che tu ti senti appena arrivato, ma io invece sento che sono stata qui troppo tempo.”
“E dove andresti?”
“Non lo so. Non mi so mai decidere. Leggo progetti, cose, volontariato, master all'estero. Ma poi mi dico che la mia carriera qui deve scorrere per un po'. E mi dà fastidio. Perché è una mia scelta, ma è una scelta che mi ha intrappolato.”
Stavolta aveva parlato a se stessa, guardando avanti a sè. Non replicai. Lasciai che i clacson, il traffico e il lento sciabordio del mare ci accompagnassero avanti, verso la stazione degli autobus. Lei abitava appena fuori città, e io fui tentato di dirle che l'accompagnavo, che prendevo l'autobus con lei per tenerle compagnia e poi tornavo indietro. Questo pensiero mi tenne parecchio impegnato, e arrivammo alla stazione senza quasi accorgercene.
Misi una mano in tasca e ci trovai una cosa di cui mi stavo scordando. Avevo un disco per lei, di musica caraibica, preso a cinque euro a un mercatino. Pochi minuti dopo averlo comprato avevo capito che non era per me, ma per lei.
Il suo autobus era lì che la aspettava, e il conducente stava fumando una sigaretta prima di partire.
Lei si voltò verso di me.
“Grazie per il té.”
“Figurati, spero fosse meglio del mio caffè.”
Lei mi sorrise. Io presi il pacchetto dalla tasca e glielo misi in mano.
“Questo è per te, ti ricordi che avevamo parlato del soca e del calypso?”
“Sì, mi ricordo, ma tu non dovevi.” disse lei asciutta, prendendolo. Un'aria triste le si mise sul volto. “Sei tanto caro, grazie.” disse.
Io la guardai negli occhi e pensai che quell'aria, quel'aura di tristezza le si addiceva, e mi sentii triste anch'io per averlo pensato.
“Ora vado, che mi aspettano.”
“Ci vediamo uno di questi giorni.” le dissi io.
“Sì, dai, volentieri.” e salì sul gradino dell'autobus.
Io le feci ciao con la mano e mi voltai per andare a casa.
Nessuno mi aspettava, perchè vivevo solo. Al primo angolo c'era una libreria che mi piaceva molto, e entrai, per stare un po' al caldo.
Mentre sfogliavo i libri pensavo a lei. Pensai che probabilmente le piacevo un po', ma che non ci avrei provato, che non avrei fatto proprio niente. Pensai a quanto mi sembrava vicina e allo stesso tempo lontana, nascosta dietro a un muro. Ma una cosa che avevo imparato era che essere tiepidi in amore non basta, che l'amore deve avere entusiasmo, e un po' di follia. Qui di follia non ce n'era, e i contorni erano talmente soffusi, smussati, da non poter essere certi di niente. Mi dispiaceva un po', ma più che per orgoglio maschile, per la sensazione di stare perdendo la possibilità di conoscere qualcuno di particolare. Avrei potuto essere suo amico, ma la mia solitudine era forse non meno impenetrabile della sua, come se entrambi quel mare nero davanti a cui camminavamo ce l'avessimo dentro. Anche il mio cercare di confonderla coi miei disegni, era solo sciocco, e, come tutto il resto, mancava di scopo, di precisione.
we sit in the same room
side by side
I give you the wrong lines
feed you
accuracy
[da Accuracy, traccia numero 2 dell'album Three Imaginary Boys dei Cure, uscito nel maggio 1979 su etichetta Fiction]
foto da flickr.com, utente dead man...walking, Move
scritto da Alberto Lioy, tra il 5 e il 7 novembre 2012