Io non ne so niente, non ne ho mai saputo niente, e non è certo che comincerò a saperne qualcosa proprio adesso. Specialmente da quando non abito più vicino a quella ferrovia a binario unico, dove incastrati tra le due linee, merci e passeggeri, a volte c’era da aspettare mezz’ora che si aprisse il passaggio a livello. A ripensarci adesso mi sembrano poche case, ma forse erano solo troppo poche quelle che contavano qualcosa. Le altre restano sospese nel mio ricordo come avvolte nella nebbia, che in fin dei conti le avvolgeva spesso nelle mattine d’inverno, d’autunno e anche di primavera. Cadevano a pezzi, casa più casa meno, e non è che nessuno avesse da vantarsi di essere meglio degli altri. Anche perché altrimenti sarebbero andati a vivere altrove.
La signora con i gatti non amava parlarne. Perennemente acciambellata su una sedia con un grosso cuscino che le faceva venire il culone, a volte si assopiva sul portico nelle giornate di pioggia e cominciava a mormorare, non si sa bene a chi. Anche coi gatti si spiegava più che altro a gesti, e sottovoce, per non attirare attenzioni indesiderate. Quando qualcuno le chiedeva, lei diceva che doveva essere arrivato a un certo punto degli anni ottanta. In quegli anni che si assomigliavano un po’ tutti era difficile da dire. Non c’era altra spiegazione, visto che la crisi economica aveva portato via un po’ delle famiglie bene del paese, quelle che erano arrivate a fine ottocento quando si pensava ancora che quel pezzo di mondo potesse diventare qualcosa. Invece era rimasto niente, e così anche quando arrivo “quello lì” come lo chiamava lei, non è che se ne accorse veramente nessuno. Probabilmente ne sapevano più di lei i suoi gatti, che la notte esploravano i giardini delle case, fino al fiume.
Il vecchio con la cabriolet era ancora meno interessato a parlarne. Diceva solo che essendo un paese libero ognuno può campare un po’ come vuole. A patto di non dar fastidio agli altri. Nei giorni di sole lui usciva a lucidare la macchina con metodica pazienza, come aveva lucidato gli aerei quando era militare. Era stato fortunato a uscirne vivo, raccontava ai pochi interessati, ma non era certo tipo da scendere in particolari, nonostante fosse l’unica cosa degna di nota che avesse fatto nella sua vita. Aveva poi lavorato in banca per tanti anni e la pensione bastava a mantenerlo. Aveva addirittura abbastanza soldi da pagare una studentessa delle scuole superiori perché venisse a pulirgli la cucina una volta a settimana. Eppure dalla sua faccia si capiva che avrebbe voluto saperne di più. Arricciava in naso, si concentrava e nella sua testa si chiedeva come fosse stato possibile che fosse successo lì, due case accanto. Forse era anche un po’ scettico, ma il giorno prima, in una delle sue rare passeggiate in auto era passato davanti alla casa di “quello lì” accelerando a tavola, pur sapendo bene che era vuota.
L’infermiera di notte voleva mettere dei punti fermi. Specificando che non si trattava di curiosità o di pettegolezzo. Ma semplicemente di differenziare il vero dal falso. Che non era vero che tutti venissero apposta, alcuni si erano probabilmente perduti. Lo attribuiva al fatto che i senzatetto fossero in rapida crescita, e ancora di più dopo che gli affitti avevano cominciato a salire indiscriminatamente. Lei era a favore dei progetti di riqualificazione urbana che aiutassero le minoranze etniche, purché non spostassero in un’altra città il piccolo ospedale dove lavorava. Ad ogni modo sembrava più interessata ai clienti, che a “quello lì”. Più che tutto si aggrappava al fatto che molti venissero a piedi, e che uno una volta le aveva fatto i complimenti la settimana che si era tinti i capelli di viola e li aveva rasati da un lato. Era mattina presto e lei stava rientrando dal lavoro. Una di quelle notti d’inverno in cui si vede la via lattea, se lo ricordava molto bene. Poi era andata a dormire e le era passato di mente. Non le faceva piacere parlarne, questo voleva che fosse chiaro.
Il muratore andò a prendersi un’altra birra per cercare di togliersi di dosso la confusione e la polvere. Era birra da pochi soldi, lui che avrebbe potuto permettersi di meglio, se solo non avesse dovuto mandare buona parte della sua paga per posta. Se avesse dovuto indicare di che casa si trattasse, avrebbe fatto fatica, nonostante avesse capito vagamente che fosse una casa del suo stesso isolato, e una casa d’epoca, di quelle con una targa davanti che ne identifica il primo proprietario. Sicuramente capiva meglio di altri che c’era qualcosa che ti portava in quella fetta di mondo tra le due ferrovie, a dispetto della destinazione preferita dell’uno o dell’altro. Una roba tipo la mano invisibile del mercato, di cui al suo attuale datore di lavoro, un costruttore che viveva dall’altra parte del fiume, piaceva molto parlare, usandola come metafora per qualsiasi cosa succedesse nel mondo. A lui la mano invisibile pareva più adatta a spiegare i movimenti delle persone, come quando da bambini, con gesti senza amore, guidiamo una macchinina su un tappeto a righe.
La signora coi gatti leggeva i tarocchi, anche se poi non così spesso e anche se non amava parlarne. Aveva sempre dato per scontato che anche in quella casa si facesse lo stesso. D’altra parte era solo una questione di buonsenso, se qualcuno pensava che veramente si potesse prevedere il futuro, erano affari suoi. Altrimenti le carte le avrebbero spiegato dove fosse suo figlio e come mai non la andasse più a trovare, già da parecchi anni, e avrebbe trovato un modo per togliersi di lì. Mettere a fuoco i clienti era sicuramente impresa più ardua. D’altra parte le sembrava sempre che apparissero dal nulla, e così scomparissero. I numeri che aveva dato il giornale sembravano assolutamente inverosimili, e poi dov’era che andavano i soldi? Non si era mai nemmeno comprato una macchina nuova. Quello persino lei l’avrebbe notato, gli abitava davanti, che diamine, e le capitava spesso di risvegliarsi dai suoi sonnellini, prima di andare a farsi un caffè d’erbe, e di vedere per prima cosa la sua vecchia macchina scassata, gialla che pareva un taxi. La macchina era ancora lì, in attesa del ritorno di “quello lì”.
Il vecchio con la cabriolet si era fissato su un dettaglio, che era certo che qualcuno gli avesse detto tempo addietro. Il fatto che “quello lì” abbassasse sempre la tenda prima di cominciare a lavorare con quelli che lo andavano a trovare. Era una prova del fatto che faceva qualcosa di cui tutto sommato si vergognava, o comunque che andava tenuta nascosta. Eppure in fondo non gli importava davvero di che cosa si trattasse. Quando era giovane anche lui aveva fatto delle cose illegali, scommesse, cocaina, e non gli andava di essere cattivo. L’unica cosa importante, più della cabriolet, che era un passatempo che avrebbe potuto sostituire con un altro, era che non smettessero di vendere le Memphis al distributore di benzina. Ecco, se si fossero abbassate le serrande su quel distributore, l’ultimo a vendere le sigarette di una vita, gli sarebbe crollato il mondo addosso, sarebbe stato un danno irreparabile. Molto più di qualsiasi rivelazione potesse venir fuori ieri, oggi, o domani, su quello che succedeva in quella casa poco lontano.
L’infermiera di notte avrebbe voluto essere di aiuto. Naturalmente pensava che il problema fosse di natura sociale, ma di competenza medica e che anche quelli che finivano per visitare la casa, in altre circostante avrebbero fatto altrimenti. Diceva sempre a una sua collega ansiosa che le chiedeva sempre disperatamente consiglio, che avrebbe voluto sapere cosa stava cercando nella vita, perché così magari avrebbe saputo cosa avrebbe trovato. Sperava in fin dei conti di meritarsi di meglio, lei per prima. Perché in fondo se c’era una cosa che le desse fastidio è che per finire sui giornali ci fosse stato bisogno di una storia così. Che davvero non ci fossero altre ragioni, più normali, a rendere il posto in cui viveva almeno un po’ speciale. D’altra parte durante la mattina lei dormiva, e spesso anche per buona parte del pomeriggio. Non conosceva nessuno nel quartiere e salutava solo quelli che portavano il cane a passeggiare quando usciva per il turno delle ventidue, e quando rientrava alle sei. Di conseguenza lei “quello lì” non l’aveva mai visto.
Il muratore pensava di essere una persona intelligente e di buon senso, e malediceva la sua scarsa memoria. Anche il fatto di sapere che avrebbe potuto costruirsi una casa migliore di quella che affittava, se solo avesse avuto i soldi, era una cosa che trovava tutto sommato razionale. Certo, gli sarebbe piaciuto se “quello lì” un bel giorno gli avesse chiesto di fare qualche lavoro di muratura. Non rifiutava mai un invito perché gli piaceva vedere le case degli altri, i loro uffici, le loro cucine, i loro bagni. La cosa bella di vivere in un posto così per lui era che il lavoro non mancava. E lavorare è sicuramente meglio che non lavorare, soprattutto quando nei giorni di riposo hai l’impressione che non ci sia nessuno, che le case siano vuote. Gli faceva un po’ impressione pensare che in quella casa poco lontano ci passasse così tanta gente, e immaginava che magari ci fosse un passaggio segreto per uno scantinato immenso, con un tavolo da biliardo. Gli sembrava ridicolo che la gente potesse andare a fargli visita in una casa di due camere e cucina come la sua. E anche il fatto che “quello lì” vivesse da solo, proprio come lui.
La signora coi gatti avrebbe voluto farne un fatto di morale e di religione, perché avrebbe semplificato le cose, ma sapeva benissimo di non essere nelle condizioni di dare lezioni a nessuno, e si mordeva la lingua. D’altronde non si trattava certo di satanismo, o di droghe pesanti, perché altrimenti i giornali ci avrebbero marciato sopra e sarebbe diventato un caso di risonanza nazionale, altroché. Sarebbe venuta gente, magari anche dei turisti stranieri, di quelli appassionati dei film dell’orrore e magari qualche squilibrato del death metal in cerca di ispirazione. Invece il vicinato restava vuoto, e dopo aver parlato con i giornalisti le sembrava ancora più vuoto di prima. Per un po’ le parve che il suo respiro fosse più forte del normale, andò anche a misurarsi la pressione. Ma era certamente per aver parlato tanto, e di qualcosa che non capiva. Non era più abituata. E poi erano venuti al tramonto che in fin dei conti era l’ora del giorno in cui lei aveva meno energie, glielo aveva detto anche il medico, quello carino che le ricordava tanto un attore dei western che le piaceva da giovane.
Il vecchio con la cabriolet aveva fatto dei sogni. Al principio aveva pensato che si riferissero a delle esplosioni che doveva aver visto da militare, con tutto quel bianco scintillante. Eppure no. Troppo silenzio. Somigliava più a una notte stellata, ma con una luna di metallo a fare da riflettore. Si rese conto che aveva a che fare con quella casa, dopo che una mattina dopo il sogno, si svegliò all’alba di soprassalto con la voglia di andare a vedere. Si alzò in piedi, accese una Memphis, e andò nella rimessa dove teneva il fucile. Lo prese in mano e si fermò a fissare il calcio prima, il grilletto poi, e poi i suoi piedi. Era in mutande, e si sentì ridicolo. Cosa avrebbero mai pensato per strada se l’avessero visto imbracciare il fucile? Scrollò le spalle e si disse che non avrebbero pensato proprio niente, che nessuno avrebbe fatto caso e anche anzi avrebbe potuto entrare dentro la casa di “quello lì”, rompere i sigilli, fucile in mano, sparare due colpi dentro alla tazza del cesso, e tornare a casa sua, senza che nessuno dicesse niente. Scrollò anche la testa è andò a farsi un caffè.
L’infermiera di notte avrebbe voluto avere il coraggio di berci sopra. Suo padre beveva, sua madre beveva, andavano al bar insieme nel weekend e si facevano compagnia con altri alcolizzati della domenica. Quando li andava a trovare, si sentiva sempre a disagio per il fatto di essere astemia. Le avevano telefonato, non senza una certa eccitazione, e si sentiva dalla voce che erano alticci. Si davano il cambio al telefono. Le avevano chiesto dei giornalisti. Sua madre si era persino dimenticata di rimproverarla per i capelli tinti di viola. Lei fu addirittura tentata di dire che non aveva parlato coi media, ma sapeva anche che in una delle sue dichiarazioni aveva raccontato del suo lavoro, per vanità, e che per i suoi sarebbe stato facile sbugiardarla. Bere una birra fresca l’avrebbe sicuramente aiutata in quel momento, e l’unico bar della zona era poco lontano. Sapeva che avrebbe ceduto, più prima che poi, ma non quella sera. Il pensiero la riempì di rabbia, rabbia verso “quello lì”, la sua maledettissima casa, e il fatto che le cose nella vita dovessero necessariamente cambiare, non potessero mai stare ferme. Neanche in un posto come quello.
Il muratore voleva tirare le somme. Si guardava le unghie, che teneva pulitissime per sfatare uno stereotipo negativo contro la sua professione. In fin dei conti per lui “quello lì” era uno da ammirare, e se si fosse presentato alle elezioni l’avrebbe votato. Un self-made man. Altro che il suo capo che aveva ereditato la ditta dal padre e non ne faceva mistero. Se solo non avesse dovuto pagare gli alimenti per le sue due famiglie, anche lui avrebbe potuto fare una carriera di qualche genere. Magari avrebbe anche ricominciato ad andare a ballare, che era come aveva conosciuto la sua prima moglie a 20 anni e come l’aveva tradita a 30. Adesso che era arrivato a 40, rifletteva sui fatti. Soprattutto sul fatto che non si sapesse bene quando “quello lì” era arrivato in quell’angolo di mondo. Lui lo vedeva come la conferma che la tenacia paga, che chi la dura la vince. Pensò che in fin dei conti, se nessuno era sicuro che fosse illegale, era stata vera gloria, qualunque fosse stata la natura di quelli che i giornali avevano chiamato “consulti privati”. Sorrise pensando agli anni lasciati indietro, brevi e intensi, come un tango, come uno scherzo della natura.
Ora, non so bene se questa storia valesse la pena di essere raccontata. Io stesso come personaggio sono sfuggente quanto basta. Mi siedo anch’io sotto la via lattea, che però non si vede. Siedo su una panchina di un parco davanti a una ferrovia molto più grande, a molti chilometri da quel piccolo quartiere polveroso e dalla casa in cui sono cresciuto. Tocco con le dita le pagine del giornale posato accanto a me. Tutta questa storia sembra opera di fantasia. Nessuno sa niente, ma non c’è niente da stupirsi. È sempre stato così, perché tra perdenti la verità fa male, e poi è tutto sommato una cosa relativa. Ognuno può edulcorare un po’ la sua storia, a patto di non parlarne spesso, di non vantarsi delle proprie bugie e di non spararla troppo grossa. Mi chiedo se i giornalisti ne abbiano avuto un’impressione più chiara, e sono tentato di scrivere alla reporter che ha scritto l’articolo principale. Quello di cui sono certo è che a un certo punto lo lasceranno andare. Perché in fondo, sanno anche loro che tornare in quel quartiere è peggio di qualsiasi reclusione a spese dello stato.
La signora con i gatti non amava parlarne. Perennemente acciambellata su una sedia con un grosso cuscino che le faceva venire il culone, a volte si assopiva sul portico nelle giornate di pioggia e cominciava a mormorare, non si sa bene a chi. Anche coi gatti si spiegava più che altro a gesti, e sottovoce, per non attirare attenzioni indesiderate. Quando qualcuno le chiedeva, lei diceva che doveva essere arrivato a un certo punto degli anni ottanta. In quegli anni che si assomigliavano un po’ tutti era difficile da dire. Non c’era altra spiegazione, visto che la crisi economica aveva portato via un po’ delle famiglie bene del paese, quelle che erano arrivate a fine ottocento quando si pensava ancora che quel pezzo di mondo potesse diventare qualcosa. Invece era rimasto niente, e così anche quando arrivo “quello lì” come lo chiamava lei, non è che se ne accorse veramente nessuno. Probabilmente ne sapevano più di lei i suoi gatti, che la notte esploravano i giardini delle case, fino al fiume.
Il vecchio con la cabriolet era ancora meno interessato a parlarne. Diceva solo che essendo un paese libero ognuno può campare un po’ come vuole. A patto di non dar fastidio agli altri. Nei giorni di sole lui usciva a lucidare la macchina con metodica pazienza, come aveva lucidato gli aerei quando era militare. Era stato fortunato a uscirne vivo, raccontava ai pochi interessati, ma non era certo tipo da scendere in particolari, nonostante fosse l’unica cosa degna di nota che avesse fatto nella sua vita. Aveva poi lavorato in banca per tanti anni e la pensione bastava a mantenerlo. Aveva addirittura abbastanza soldi da pagare una studentessa delle scuole superiori perché venisse a pulirgli la cucina una volta a settimana. Eppure dalla sua faccia si capiva che avrebbe voluto saperne di più. Arricciava in naso, si concentrava e nella sua testa si chiedeva come fosse stato possibile che fosse successo lì, due case accanto. Forse era anche un po’ scettico, ma il giorno prima, in una delle sue rare passeggiate in auto era passato davanti alla casa di “quello lì” accelerando a tavola, pur sapendo bene che era vuota.
L’infermiera di notte voleva mettere dei punti fermi. Specificando che non si trattava di curiosità o di pettegolezzo. Ma semplicemente di differenziare il vero dal falso. Che non era vero che tutti venissero apposta, alcuni si erano probabilmente perduti. Lo attribuiva al fatto che i senzatetto fossero in rapida crescita, e ancora di più dopo che gli affitti avevano cominciato a salire indiscriminatamente. Lei era a favore dei progetti di riqualificazione urbana che aiutassero le minoranze etniche, purché non spostassero in un’altra città il piccolo ospedale dove lavorava. Ad ogni modo sembrava più interessata ai clienti, che a “quello lì”. Più che tutto si aggrappava al fatto che molti venissero a piedi, e che uno una volta le aveva fatto i complimenti la settimana che si era tinti i capelli di viola e li aveva rasati da un lato. Era mattina presto e lei stava rientrando dal lavoro. Una di quelle notti d’inverno in cui si vede la via lattea, se lo ricordava molto bene. Poi era andata a dormire e le era passato di mente. Non le faceva piacere parlarne, questo voleva che fosse chiaro.
Il muratore andò a prendersi un’altra birra per cercare di togliersi di dosso la confusione e la polvere. Era birra da pochi soldi, lui che avrebbe potuto permettersi di meglio, se solo non avesse dovuto mandare buona parte della sua paga per posta. Se avesse dovuto indicare di che casa si trattasse, avrebbe fatto fatica, nonostante avesse capito vagamente che fosse una casa del suo stesso isolato, e una casa d’epoca, di quelle con una targa davanti che ne identifica il primo proprietario. Sicuramente capiva meglio di altri che c’era qualcosa che ti portava in quella fetta di mondo tra le due ferrovie, a dispetto della destinazione preferita dell’uno o dell’altro. Una roba tipo la mano invisibile del mercato, di cui al suo attuale datore di lavoro, un costruttore che viveva dall’altra parte del fiume, piaceva molto parlare, usandola come metafora per qualsiasi cosa succedesse nel mondo. A lui la mano invisibile pareva più adatta a spiegare i movimenti delle persone, come quando da bambini, con gesti senza amore, guidiamo una macchinina su un tappeto a righe.
La signora coi gatti leggeva i tarocchi, anche se poi non così spesso e anche se non amava parlarne. Aveva sempre dato per scontato che anche in quella casa si facesse lo stesso. D’altra parte era solo una questione di buonsenso, se qualcuno pensava che veramente si potesse prevedere il futuro, erano affari suoi. Altrimenti le carte le avrebbero spiegato dove fosse suo figlio e come mai non la andasse più a trovare, già da parecchi anni, e avrebbe trovato un modo per togliersi di lì. Mettere a fuoco i clienti era sicuramente impresa più ardua. D’altra parte le sembrava sempre che apparissero dal nulla, e così scomparissero. I numeri che aveva dato il giornale sembravano assolutamente inverosimili, e poi dov’era che andavano i soldi? Non si era mai nemmeno comprato una macchina nuova. Quello persino lei l’avrebbe notato, gli abitava davanti, che diamine, e le capitava spesso di risvegliarsi dai suoi sonnellini, prima di andare a farsi un caffè d’erbe, e di vedere per prima cosa la sua vecchia macchina scassata, gialla che pareva un taxi. La macchina era ancora lì, in attesa del ritorno di “quello lì”.
Il vecchio con la cabriolet si era fissato su un dettaglio, che era certo che qualcuno gli avesse detto tempo addietro. Il fatto che “quello lì” abbassasse sempre la tenda prima di cominciare a lavorare con quelli che lo andavano a trovare. Era una prova del fatto che faceva qualcosa di cui tutto sommato si vergognava, o comunque che andava tenuta nascosta. Eppure in fondo non gli importava davvero di che cosa si trattasse. Quando era giovane anche lui aveva fatto delle cose illegali, scommesse, cocaina, e non gli andava di essere cattivo. L’unica cosa importante, più della cabriolet, che era un passatempo che avrebbe potuto sostituire con un altro, era che non smettessero di vendere le Memphis al distributore di benzina. Ecco, se si fossero abbassate le serrande su quel distributore, l’ultimo a vendere le sigarette di una vita, gli sarebbe crollato il mondo addosso, sarebbe stato un danno irreparabile. Molto più di qualsiasi rivelazione potesse venir fuori ieri, oggi, o domani, su quello che succedeva in quella casa poco lontano.
L’infermiera di notte avrebbe voluto essere di aiuto. Naturalmente pensava che il problema fosse di natura sociale, ma di competenza medica e che anche quelli che finivano per visitare la casa, in altre circostante avrebbero fatto altrimenti. Diceva sempre a una sua collega ansiosa che le chiedeva sempre disperatamente consiglio, che avrebbe voluto sapere cosa stava cercando nella vita, perché così magari avrebbe saputo cosa avrebbe trovato. Sperava in fin dei conti di meritarsi di meglio, lei per prima. Perché in fondo se c’era una cosa che le desse fastidio è che per finire sui giornali ci fosse stato bisogno di una storia così. Che davvero non ci fossero altre ragioni, più normali, a rendere il posto in cui viveva almeno un po’ speciale. D’altra parte durante la mattina lei dormiva, e spesso anche per buona parte del pomeriggio. Non conosceva nessuno nel quartiere e salutava solo quelli che portavano il cane a passeggiare quando usciva per il turno delle ventidue, e quando rientrava alle sei. Di conseguenza lei “quello lì” non l’aveva mai visto.
Il muratore pensava di essere una persona intelligente e di buon senso, e malediceva la sua scarsa memoria. Anche il fatto di sapere che avrebbe potuto costruirsi una casa migliore di quella che affittava, se solo avesse avuto i soldi, era una cosa che trovava tutto sommato razionale. Certo, gli sarebbe piaciuto se “quello lì” un bel giorno gli avesse chiesto di fare qualche lavoro di muratura. Non rifiutava mai un invito perché gli piaceva vedere le case degli altri, i loro uffici, le loro cucine, i loro bagni. La cosa bella di vivere in un posto così per lui era che il lavoro non mancava. E lavorare è sicuramente meglio che non lavorare, soprattutto quando nei giorni di riposo hai l’impressione che non ci sia nessuno, che le case siano vuote. Gli faceva un po’ impressione pensare che in quella casa poco lontano ci passasse così tanta gente, e immaginava che magari ci fosse un passaggio segreto per uno scantinato immenso, con un tavolo da biliardo. Gli sembrava ridicolo che la gente potesse andare a fargli visita in una casa di due camere e cucina come la sua. E anche il fatto che “quello lì” vivesse da solo, proprio come lui.
La signora coi gatti avrebbe voluto farne un fatto di morale e di religione, perché avrebbe semplificato le cose, ma sapeva benissimo di non essere nelle condizioni di dare lezioni a nessuno, e si mordeva la lingua. D’altronde non si trattava certo di satanismo, o di droghe pesanti, perché altrimenti i giornali ci avrebbero marciato sopra e sarebbe diventato un caso di risonanza nazionale, altroché. Sarebbe venuta gente, magari anche dei turisti stranieri, di quelli appassionati dei film dell’orrore e magari qualche squilibrato del death metal in cerca di ispirazione. Invece il vicinato restava vuoto, e dopo aver parlato con i giornalisti le sembrava ancora più vuoto di prima. Per un po’ le parve che il suo respiro fosse più forte del normale, andò anche a misurarsi la pressione. Ma era certamente per aver parlato tanto, e di qualcosa che non capiva. Non era più abituata. E poi erano venuti al tramonto che in fin dei conti era l’ora del giorno in cui lei aveva meno energie, glielo aveva detto anche il medico, quello carino che le ricordava tanto un attore dei western che le piaceva da giovane.
Il vecchio con la cabriolet aveva fatto dei sogni. Al principio aveva pensato che si riferissero a delle esplosioni che doveva aver visto da militare, con tutto quel bianco scintillante. Eppure no. Troppo silenzio. Somigliava più a una notte stellata, ma con una luna di metallo a fare da riflettore. Si rese conto che aveva a che fare con quella casa, dopo che una mattina dopo il sogno, si svegliò all’alba di soprassalto con la voglia di andare a vedere. Si alzò in piedi, accese una Memphis, e andò nella rimessa dove teneva il fucile. Lo prese in mano e si fermò a fissare il calcio prima, il grilletto poi, e poi i suoi piedi. Era in mutande, e si sentì ridicolo. Cosa avrebbero mai pensato per strada se l’avessero visto imbracciare il fucile? Scrollò le spalle e si disse che non avrebbero pensato proprio niente, che nessuno avrebbe fatto caso e anche anzi avrebbe potuto entrare dentro la casa di “quello lì”, rompere i sigilli, fucile in mano, sparare due colpi dentro alla tazza del cesso, e tornare a casa sua, senza che nessuno dicesse niente. Scrollò anche la testa è andò a farsi un caffè.
L’infermiera di notte avrebbe voluto avere il coraggio di berci sopra. Suo padre beveva, sua madre beveva, andavano al bar insieme nel weekend e si facevano compagnia con altri alcolizzati della domenica. Quando li andava a trovare, si sentiva sempre a disagio per il fatto di essere astemia. Le avevano telefonato, non senza una certa eccitazione, e si sentiva dalla voce che erano alticci. Si davano il cambio al telefono. Le avevano chiesto dei giornalisti. Sua madre si era persino dimenticata di rimproverarla per i capelli tinti di viola. Lei fu addirittura tentata di dire che non aveva parlato coi media, ma sapeva anche che in una delle sue dichiarazioni aveva raccontato del suo lavoro, per vanità, e che per i suoi sarebbe stato facile sbugiardarla. Bere una birra fresca l’avrebbe sicuramente aiutata in quel momento, e l’unico bar della zona era poco lontano. Sapeva che avrebbe ceduto, più prima che poi, ma non quella sera. Il pensiero la riempì di rabbia, rabbia verso “quello lì”, la sua maledettissima casa, e il fatto che le cose nella vita dovessero necessariamente cambiare, non potessero mai stare ferme. Neanche in un posto come quello.
Il muratore voleva tirare le somme. Si guardava le unghie, che teneva pulitissime per sfatare uno stereotipo negativo contro la sua professione. In fin dei conti per lui “quello lì” era uno da ammirare, e se si fosse presentato alle elezioni l’avrebbe votato. Un self-made man. Altro che il suo capo che aveva ereditato la ditta dal padre e non ne faceva mistero. Se solo non avesse dovuto pagare gli alimenti per le sue due famiglie, anche lui avrebbe potuto fare una carriera di qualche genere. Magari avrebbe anche ricominciato ad andare a ballare, che era come aveva conosciuto la sua prima moglie a 20 anni e come l’aveva tradita a 30. Adesso che era arrivato a 40, rifletteva sui fatti. Soprattutto sul fatto che non si sapesse bene quando “quello lì” era arrivato in quell’angolo di mondo. Lui lo vedeva come la conferma che la tenacia paga, che chi la dura la vince. Pensò che in fin dei conti, se nessuno era sicuro che fosse illegale, era stata vera gloria, qualunque fosse stata la natura di quelli che i giornali avevano chiamato “consulti privati”. Sorrise pensando agli anni lasciati indietro, brevi e intensi, come un tango, come uno scherzo della natura.
Ora, non so bene se questa storia valesse la pena di essere raccontata. Io stesso come personaggio sono sfuggente quanto basta. Mi siedo anch’io sotto la via lattea, che però non si vede. Siedo su una panchina di un parco davanti a una ferrovia molto più grande, a molti chilometri da quel piccolo quartiere polveroso e dalla casa in cui sono cresciuto. Tocco con le dita le pagine del giornale posato accanto a me. Tutta questa storia sembra opera di fantasia. Nessuno sa niente, ma non c’è niente da stupirsi. È sempre stato così, perché tra perdenti la verità fa male, e poi è tutto sommato una cosa relativa. Ognuno può edulcorare un po’ la sua storia, a patto di non parlarne spesso, di non vantarsi delle proprie bugie e di non spararla troppo grossa. Mi chiedo se i giornalisti ne abbiano avuto un’impressione più chiara, e sono tentato di scrivere alla reporter che ha scritto l’articolo principale. Quello di cui sono certo è che a un certo punto lo lasceranno andare. Perché in fondo, sanno anche loro che tornare in quel quartiere è peggio di qualsiasi reclusione a spese dello stato.