Sono ancora in ritardo, il tram è appena passato e me lo vedo scorrere davanti. Potrei correre per raggiungerlo, ma lascio perdere. Devo riprendere a fare sport, anche se sono dimagrito e mi racconto che non ho bisogno.
Fa un freddo cane, ma mi incammino lo stesso lungo la strada, di stare immobile alla fermata non se ne parla. Mi ripeto spesso che la vita è una scuola, che c'è da imparare ogni giorno, ma fallisco spesso, e la frustrazione è uno stato d'animo quotidiano. Mentre accelero il passo per cercare di scaldarmi, ripenso all'ultimo sogno della notte.
Tanta luce da non potermi riparare, che penetrava come fosse vento dentro al lenzuolo che avevo davanti agli occhi. A ogni velo che si diradava, un nuovo velo mi veniva in soccorso, viola, e poi verde, per ripararmi da quella luce accecante. Poi qualcuno mi chiamava, e mi rendevo conto che dietro di me c'era una stanza buia. Allora rabbrividivo e mi rendevo conto di essere preso in mezzo, o buio o luce, e che quella voce non mi era familiare.
Mi squilla il cellulare, che tolgo dalla tasca, facendo cadere in terra gli auricolari e le chiavi. Le raccolgo mentre rispondo, e un passante urta il mio zaino.
“Pronto, sì.”
“Ehi, ciao.”
“Ciao, come stai?” chiedo alla voce di Sara.
“Mi sono svegliata troppo presto... vieni a trovarmi oggi?”
“Può darsi, posso passare ora se vuoi.”
“Vieni a pranzo, ho fatto le verdure ripiene.”
“Va bene, a che ora?”
“All'una è pronto.”
“A dopo allora.”
“A dopo.”
Alzo le spalle, mentre ricomincio a camminare. Mi avrebbe aiutato a far passare la giornata.
Guardo i portoni sull'altro lato della strada, quello col sole, quello col grifone, quello con il serpente. Qualcuno tantissimo tempo fa, aveva dato un significato a queste cose, adesso nessuno sa più leggere i segni, siamo persi in un mondo, di marchi commerciali e squadre di calcio. Chiudendo la mano a pugno mi rendo conto di essermi ancora scordato i guanti. L'inizio dell'inverno è sempre così, mi coglie impreparato. Dico a tutti che detesto portare i guanti, perché mi rendono ancora più maldestro con le mani, di quanto io non sia già di mio. A cucinare mi taglio sempre, anche ora ho una ferita sul dorso del pollice che non si vuole rimarginare.
Mi guardo riflesso in una vetrina. Ho i capelli fuori posto e la sciarpa che ondeggia da una parte, tutta fuori dal cappotto. Raddrizzo quello che posso e salto sul tram, tre fermate dopo casa mia.
Quando arrivo al lavoro c'è un panino sulla mia scrivania, cortesia di qualcuno che dovrò ricordarmi di ringraziare, chiunque esso sia. Devo chiamare due clienti prima delle undici e fissare degli appuntamenti, poi per il resto della mattina ho da completare un piccolo database su excel. Si può fare. Tiro fuori le cuffie, completamente annodate, dalla tasca, le districo mettendoci una vita e mi attacco al computer. Metto un disco punk anni '80, perché ho bisogno di energia. Mi fa sempre strano stare in quell'ufficio pulito, coi pavimenti di moquette verde-grigia, con la camicia infilata dentro i pantaloni, e ascoltare punk. Sono un servo del potere e ascolto punk. Il premio ipocrisia dell'anno è mio, già lo sento. Un gruppo di colleghe passa e saluta con la mano, gonne corte e collane a perle grosse, e io mimo ciao con le labbra, anche se sono io a non sentirle e non viceversa. La batteria mi incalza a continuare, e procedo a inserire numeri di telefono e ordinazioni. Un lavoro da scimmia ammaestrata, con buona pace della mia laurea e di quella di tutti gli altri che lavorano nel mio ufficio e anche in altri, sospetto.
Arrivo al portone che sono le una e dieci. Suono il citofono e qualcuno mi apre in due secondi. Entro, salgo una rampa di scale, la porta è aperta.
“Ciao!” mi urla Sara dalla cucina.
Chiudo la porta dietro di me e poso cappotto e zaino all'attaccapanni. Tolgo le scarpe, sfrego le mani una contro l'altra per scaldarle. Mi trascino nell'altra stanza mentre mi sfilo la cintura dei pantaloni. La appoggio sul mobile del telefono e vedo Sara che mi mette uno zucchino e un peperone nel piatto.
“Riso e formaggio.” dico io.
“No! Riso e carne. Riso e formaggio non sanno mai di niente.”
Sara mi sorride e si ravvia una ciocca di capelli dalla fronte. Mi guarda come se volesse chiedermi se è bella. Certo che lo è, una bella ragazza di trent'anni coi capelli tinti di nero, un naso importante che le dà l'aria di chi si fa beffe di qualcuno, delle belle gambe dritte e piene, e due occhi verdi scuri che risaltano solo se ci si fa attenzione.
Io annuisco e rido.
“Che ti ridi? Siediti.”
“Lo sai perché rido.”
“Ride ben chi ride ultimo.” mi chiude lei, e mi versa un bicchiere di lambrusco.
Fino all'anno scorso, tenevo il conto delle volte che ero andato a pranzo da lei, adesso ho perso il totale, ma sono sicuro che siamo intorno a quaranta, cinquanta forse. All'inizio la invitavo anch'io, ma i suoi continui rifiuti mi hanno spinto a smettere di chiedere.
Lo zucchino è buonissimo, con più carne che riso, e leggermente glassato che ho sempre il sospetto che ci metta una spolverata di zucchero a velo.
“Tu non mangi?”
“Ho della zuppa, adesso mi siedo.”
“Ti aspetto allora.”
“Vai sereno, che tanto te ne dò ancora.”
Cerco di fare i bocconi più piccoli che mi riescano, ma mangiare lentamente non rientra tra le mie poche abilità.
“Hai una sigaretta?” le chiedo.
“Vai a vedere in salotto.”
Mi alzo e vado a cercare sulla poltrona. Le trovo sul bracciolo, nel solito pacchetto rosso con la scritta dorata. Care, leggere, di quelle che manco ti rovinano l'appetito. Accendo in salotto e mi trasferisco in cucina col posacenere.
“Hai fatto bene, almeno non mi aspetti con le mani in mano.” mi dice Sara.
Io annuisco ancora e guardo fuori dalla finestra, cercando di concerntrarmi anche se non so su cosa. Penso a qualcuno. Qualcuno che mi avrebbe chiesto perché sono così silenzioso. Scelgo di rompere il silenzio di proposito.
“Ho scritto una nuova canzone.”
“Davvero? Me la devi far sentire.”
“Ma tu non hai una chitarra in casa.”
“Porta la tua.”
“Non posso portarla al lavoro. Te la faccio sentire per telefono.”
“Registrala e portami l'mp3 su una chiavetta.”
Sara si versa due mestoli della zuppa finalmente calda. È quella che prepara sempre, col ragù il pane e il cavolo verza. Buonissima, tanto che sono tentato di rubargliene una cucchiaiata. Spengo la sigaretta e taglio a pezzi grandi il mio peperone rosso.
Mi sveglio, che mi ero assopito e guardo l'ora. Le due e mezza del pomeriggio. Sara dorme alla mia sinistra, con una gamba fuori dalle lenzuola, la testa appoggiata sulla mia spalla. Io sorrido di malinconia, e mi succhio la ferita sul pollice, per stuzzicarmi. Guardo il mobile di legno di cinquant'anni fa, le tende bianche, la camera da letto che era della nonna del marito di Sara. Lui lavora fuori città durante la settimana, torna il venerdì sera e la porta a cena fuori. Sempre gli stessi due o tre ristoranti, vicino alla stazione, dove lei lo va a prendere ogni settimana. Poi il sabato vedono degli amici non meglio precisati e la domenica fanno delle gite in campagna. Io lui non l'ho mai incontrato, è solo una presenza rada nei discorsi di Sara, di solito sotto forma di “Carlo dice che...” e poi una qualche genere di predizione sul tempo o sulla politica.
Mi piace fare l'amore con Sara.
Quando comando io, lo faccio un po' come piace a me e un po' come piace a lei, democratico come sono sempre stato. Quando comanda lei, un po' lo fa con cura, sorridendo, da “manuale per orgasmi di classe”, poi se io non vengo, si stufa e gioca. Non è che giochi in modo spensierato, da ridere, ma sperimenta, improvvisa posizioni e movimenti, senza parlare, spiegandosi a gesti. Che cosa lei cerchi in questo suo modo di fare, non lo so, come non so se lo fa per lei, per me, o per chi. Non è dato sapere, mi dico sempre. Io ogni tanto penso a un'altra, ma cerco di farlo il meno possibile. Non perché Sara si risentirebbe, che chissà a chi a che cosa pensa lei, ma perché mi fa male.
Quando i pensieri imboccano la strada sbagliata finisce sempre che immagino la mia chitarra e il passero canterino che fischietta sul trespolo, il giorno che quell'altra se n'è andata, senza tornare. Allora per non piangere o dire sciocchezze a Sara, che di problemi ne ha già abbastanza senza i miei, penso che devo imparare la scienza di vivere senza soffrire. Mordo la ferita sul pollice e sento in bocca il sapore del sangue.
Torno in ufficio alle tre, e so di dover restare fino alle sette, per arrivare a otto ore. Ho dimenticato di fare una telefonata, e recupero subito, ma senza trovare la persona che sto cercando. Richiamerà. Richiamerò. Vado alla macchinetta a prendere una cocacola per cercare di svegliarmi. Mi viene incontro un collega che non sopporto che si mette a parlarmi di un problema con la stampante di rete. Vado a risolverglielo perché se no rompe le palle a tutto il piano, e anche per riempire un quarto d'ora.
Una volta che ho finito passo a salutare Renata, che parte per uno stage in Argentina, ed è nervosissima per il volo aereo. Tiro fuori dallo zaino un libricino che ho trovato a due euro, su come meditare in viaggio, e glielo regalo. Lei mi abbraccia forte e mi dice che se non ci fossi bisognerebbe inventarmi. Sì, no, non saprei, è quello che mi passa in testa. Sono bravo a fare regali, è vero. Farei volentieri a cambio con saper parlare agli amici, o anche solo saper giocare a calcio decentemente, ma temo di avere poca scelta. Le sorrido, le dico che andrà alla grande e torno in ufficio. Controllo facebook e la mail, sono tentato di fare una partita a scacchi in rete, poi lascio perdere e ricomincio a immettere dati nel database, senza musica, così, al naturale.
Passa l'uomo delle pulizie, un bengalese che si chiama Fanal o qualcosa del genere. Mi conosce, mi saluta come tutti i lunedì. Quando lo guardo penso che probabilmente vive con la moglie e i figli in venti metri quadri e non si lamenta. Mi fa sentire in colpa, perché io mi lamento sempre, e mi commisero parecchio. Apro il cassetto e prendo una pastiglia di anti-infiammatorio. Tra le malattie da stress e la mia decennale ipocondria, ho una farmacia sotto la scrivania, a cui periodicamente lascio che attingano anche colleghi bisognosi di un'aspirina, ma che chiudo a chiave quando torno a casa.
Alle sette meno un quarto mi arriva un sms. Il testo è un semplice “Scendi?”. Annuisco sapendo che è ora di andare. Metto il portatile nello zaino, mi alzo dalla sedia e vedo il telefono. Mi dò una pacca in testa. Ho dimenticato di fare quella telefonata. Chiamo rapidamente, guardando il numero da un post-it. Uno squillo, due squilli, tre squilli. Finalmente risponde, fisso l'appuntamento per domani alle sedici e trenta, buona serata e tanti saluti.
Seduto in macchina al posto del passeggero chiedo permesso e prendo una sigaretta dal pacchetto posato accanto al cambio. Pare che domani nevichi, dicono alla radio.
“Fa lo stesso, tanto ci siamo abituati.”
Ricevo in risposta una breve risata. Mai distrarre chi è concentrato sulla guida. L'aperitivo teatrale comincia alle sette e mezza, lo spettacolo alle otto.
Parcheggiamo a due isolati e scendo per primo. Faccio il giro intorno all'auto, un motorino cerca di investirmi, lo evito e apro la portiera. Paola scende e mi ringrazia, prende la borsetta dal sedile di dietro e chiude la macchina.
Si accende una sigaretta e mi guarda.
“Grazie che mi hai invitata.”
“Ma grazie a te.”
“No, davvero, è tantissimo che non vado a teatro e ti dico, mi piace un degenero ed è una di quelle cose che mi dico sempre, lo faccio, lo faccio, e poi non vado mai. Poi stasera c'è questa cosa francese, che anche se non ho capito bene dove vuole andare a parare, mi intriga un sacco, con la fisarmonica e il mare. Dovrei trasferirmi al mare prima o poi, è molto più adatto, anche d'inverno, l'acqua mi rilassa, sapessi poi il vento, mi piace tantissimo, mi copro con cappello e sciarpa e via in bici...”
La ascolto a metà, cercando più che altro di capire se pensa che ci sto provando o no, ad averla invitata. Più attento a leggere tra le righe che al succo del discorso, insomma. Entriamo, io dò i due biglietti che ho comprato ieri, ci accomodiamo nella sala ristorante con i suoi drappi rossi, e già piena di gente che aspetta che portino cibo. Bottiglie di vino bianco e rosso di scarsa qualità sono già aperte da un lato, sull'attenti per l'arrivo dei camerieri che a breve verseranno nei bicchieri.
Paola è simpatica, un po' nevrotica, ma senza esagerare, molto realista, con un padre invalido che va a trovare tutte le mattine prima di andare al lavoro. Ci esco ogni tanto, perché vorrei essere di più come lei, e spero di imparare qualcosa. È alta e magra, ha i capelli biondo spento e porta un paio di occhiali verde mela. Ci comincerei una storia, ma ho paura che mi dica di no, di aver già passato la soglia dell'amicizia da un po' e soprattutto che non mi piaccia davvero una volta che dovessimo stare insieme.
Ci serviamo di un po' di tutto, pasta fredda, patate al forno, salame cotto, mentre parliamo di libri e di musica jazz.
Mentre siamo seduti a teatro e lo spettacolo va, sognante e divertente, io ripenso ancora a qualcuno a cui non dovrei pensare. Ripenso a quando andavamo agli spettacoli insieme e ai concerti, e allo stadio, anche. È passato un anno e mezzo e non riesco a levarmi la sensazione dalla pelle. Gratto la ferita con l'unghia dell'indice, ma non riesco a farmi male. Forse dovrei stare in una vasca da bagno per un mese, forse dovrei ritirarmi su una montagna a leggere e bere tisane ayurvediche, forse dovrei bere di più. Paola mi guarda, lo spettacolo le piace, mima il gesto di battere le mani per strapparmi un sorriso. Non sa del mio passato, e neanche di Sara, ci conosciamo solo dall'inizio dell'anno, dieci mesi più o meno. Starnutisco, lei ride piano e un signore della fila davanti si gira e ci guarda male. Io gli faccio il dito medio quando si volta di nuovo, Paola ride ancora.
Giro la chiave nella toppa della porta. La spalanco, faccio un inchino e un cenno di passare avanti. Ma con me non c'è nessuno, sto solo recitando. Entro camminando all'indietro, dando libero sfogo alla parte più sciocca di me. Richiudo tutto, tolgo cappotto, scarpe, maglione con maglietta dentro, lasciando che tutto cada sul pavimento del corridoio.
A torso nudo e in jeans vado in bagno a dar da mangiare al passero. Lui fischietta per i cazzi suoi, e anche io faccio lo stesso. Lo guardo, lui saltella qua e là. Dovrei prendergli una gabbia più grande.
Piscio, spengo la luce e vado in cucina. Prendo un pacchetto di cracker e mi sposto in camera. A vederla, sfatta e impolverata, la mia camera da letto potrebbe essere fotografata col titolo di “monumento alla disillusione”.
Dovrei fare fuori il passero, anzi, lasciarlo libero in campagna, poi dare fuoco alla chitarra e cambiare città. Cambiare appartamento, cambiare lavoro, cambiare testa soprattutto.
La cosa più importante sarebbe salutare per bene quelli che mi hanno trattato bene qui. Gli amici, alcuni colleghi anche, ma non farei una festa di addio, mi darebbe brutte sensazioni anche quella.
Alzo le serrande e guardo fuori dalla finestra. Desidero una sigaretta che non ho e non andrò a comprare, perché tanto ho smesso, no?
Sorrido amaro, mi succhio la ferita e sussurro verso la notte qualcosa.
Qualcosa che domani avrò già dimenticato.
Tá fazendo um ano e meio, amor
Que o nosso lar desmoronou
Meu sabiá, meu violão
E uma cruel desilusão
Foi tudo que ficou
Ficou
Prá machucar meu coração
[da P'ra machucar meu coracao, traccia numero 3 di Getz/Gilberto di Stan Getz e Joao Gilberto, uscito nel marzo 1964 su etichetta Verve]
foto da flickr.com, utente Amanda Azzi, "laundry."
scritto da Alberto Lioy il 4 dicembre 2013
Fa un freddo cane, ma mi incammino lo stesso lungo la strada, di stare immobile alla fermata non se ne parla. Mi ripeto spesso che la vita è una scuola, che c'è da imparare ogni giorno, ma fallisco spesso, e la frustrazione è uno stato d'animo quotidiano. Mentre accelero il passo per cercare di scaldarmi, ripenso all'ultimo sogno della notte.
Tanta luce da non potermi riparare, che penetrava come fosse vento dentro al lenzuolo che avevo davanti agli occhi. A ogni velo che si diradava, un nuovo velo mi veniva in soccorso, viola, e poi verde, per ripararmi da quella luce accecante. Poi qualcuno mi chiamava, e mi rendevo conto che dietro di me c'era una stanza buia. Allora rabbrividivo e mi rendevo conto di essere preso in mezzo, o buio o luce, e che quella voce non mi era familiare.
Mi squilla il cellulare, che tolgo dalla tasca, facendo cadere in terra gli auricolari e le chiavi. Le raccolgo mentre rispondo, e un passante urta il mio zaino.
“Pronto, sì.”
“Ehi, ciao.”
“Ciao, come stai?” chiedo alla voce di Sara.
“Mi sono svegliata troppo presto... vieni a trovarmi oggi?”
“Può darsi, posso passare ora se vuoi.”
“Vieni a pranzo, ho fatto le verdure ripiene.”
“Va bene, a che ora?”
“All'una è pronto.”
“A dopo allora.”
“A dopo.”
Alzo le spalle, mentre ricomincio a camminare. Mi avrebbe aiutato a far passare la giornata.
Guardo i portoni sull'altro lato della strada, quello col sole, quello col grifone, quello con il serpente. Qualcuno tantissimo tempo fa, aveva dato un significato a queste cose, adesso nessuno sa più leggere i segni, siamo persi in un mondo, di marchi commerciali e squadre di calcio. Chiudendo la mano a pugno mi rendo conto di essermi ancora scordato i guanti. L'inizio dell'inverno è sempre così, mi coglie impreparato. Dico a tutti che detesto portare i guanti, perché mi rendono ancora più maldestro con le mani, di quanto io non sia già di mio. A cucinare mi taglio sempre, anche ora ho una ferita sul dorso del pollice che non si vuole rimarginare.
Mi guardo riflesso in una vetrina. Ho i capelli fuori posto e la sciarpa che ondeggia da una parte, tutta fuori dal cappotto. Raddrizzo quello che posso e salto sul tram, tre fermate dopo casa mia.
Quando arrivo al lavoro c'è un panino sulla mia scrivania, cortesia di qualcuno che dovrò ricordarmi di ringraziare, chiunque esso sia. Devo chiamare due clienti prima delle undici e fissare degli appuntamenti, poi per il resto della mattina ho da completare un piccolo database su excel. Si può fare. Tiro fuori le cuffie, completamente annodate, dalla tasca, le districo mettendoci una vita e mi attacco al computer. Metto un disco punk anni '80, perché ho bisogno di energia. Mi fa sempre strano stare in quell'ufficio pulito, coi pavimenti di moquette verde-grigia, con la camicia infilata dentro i pantaloni, e ascoltare punk. Sono un servo del potere e ascolto punk. Il premio ipocrisia dell'anno è mio, già lo sento. Un gruppo di colleghe passa e saluta con la mano, gonne corte e collane a perle grosse, e io mimo ciao con le labbra, anche se sono io a non sentirle e non viceversa. La batteria mi incalza a continuare, e procedo a inserire numeri di telefono e ordinazioni. Un lavoro da scimmia ammaestrata, con buona pace della mia laurea e di quella di tutti gli altri che lavorano nel mio ufficio e anche in altri, sospetto.
Arrivo al portone che sono le una e dieci. Suono il citofono e qualcuno mi apre in due secondi. Entro, salgo una rampa di scale, la porta è aperta.
“Ciao!” mi urla Sara dalla cucina.
Chiudo la porta dietro di me e poso cappotto e zaino all'attaccapanni. Tolgo le scarpe, sfrego le mani una contro l'altra per scaldarle. Mi trascino nell'altra stanza mentre mi sfilo la cintura dei pantaloni. La appoggio sul mobile del telefono e vedo Sara che mi mette uno zucchino e un peperone nel piatto.
“Riso e formaggio.” dico io.
“No! Riso e carne. Riso e formaggio non sanno mai di niente.”
Sara mi sorride e si ravvia una ciocca di capelli dalla fronte. Mi guarda come se volesse chiedermi se è bella. Certo che lo è, una bella ragazza di trent'anni coi capelli tinti di nero, un naso importante che le dà l'aria di chi si fa beffe di qualcuno, delle belle gambe dritte e piene, e due occhi verdi scuri che risaltano solo se ci si fa attenzione.
Io annuisco e rido.
“Che ti ridi? Siediti.”
“Lo sai perché rido.”
“Ride ben chi ride ultimo.” mi chiude lei, e mi versa un bicchiere di lambrusco.
Fino all'anno scorso, tenevo il conto delle volte che ero andato a pranzo da lei, adesso ho perso il totale, ma sono sicuro che siamo intorno a quaranta, cinquanta forse. All'inizio la invitavo anch'io, ma i suoi continui rifiuti mi hanno spinto a smettere di chiedere.
Lo zucchino è buonissimo, con più carne che riso, e leggermente glassato che ho sempre il sospetto che ci metta una spolverata di zucchero a velo.
“Tu non mangi?”
“Ho della zuppa, adesso mi siedo.”
“Ti aspetto allora.”
“Vai sereno, che tanto te ne dò ancora.”
Cerco di fare i bocconi più piccoli che mi riescano, ma mangiare lentamente non rientra tra le mie poche abilità.
“Hai una sigaretta?” le chiedo.
“Vai a vedere in salotto.”
Mi alzo e vado a cercare sulla poltrona. Le trovo sul bracciolo, nel solito pacchetto rosso con la scritta dorata. Care, leggere, di quelle che manco ti rovinano l'appetito. Accendo in salotto e mi trasferisco in cucina col posacenere.
“Hai fatto bene, almeno non mi aspetti con le mani in mano.” mi dice Sara.
Io annuisco ancora e guardo fuori dalla finestra, cercando di concerntrarmi anche se non so su cosa. Penso a qualcuno. Qualcuno che mi avrebbe chiesto perché sono così silenzioso. Scelgo di rompere il silenzio di proposito.
“Ho scritto una nuova canzone.”
“Davvero? Me la devi far sentire.”
“Ma tu non hai una chitarra in casa.”
“Porta la tua.”
“Non posso portarla al lavoro. Te la faccio sentire per telefono.”
“Registrala e portami l'mp3 su una chiavetta.”
Sara si versa due mestoli della zuppa finalmente calda. È quella che prepara sempre, col ragù il pane e il cavolo verza. Buonissima, tanto che sono tentato di rubargliene una cucchiaiata. Spengo la sigaretta e taglio a pezzi grandi il mio peperone rosso.
Mi sveglio, che mi ero assopito e guardo l'ora. Le due e mezza del pomeriggio. Sara dorme alla mia sinistra, con una gamba fuori dalle lenzuola, la testa appoggiata sulla mia spalla. Io sorrido di malinconia, e mi succhio la ferita sul pollice, per stuzzicarmi. Guardo il mobile di legno di cinquant'anni fa, le tende bianche, la camera da letto che era della nonna del marito di Sara. Lui lavora fuori città durante la settimana, torna il venerdì sera e la porta a cena fuori. Sempre gli stessi due o tre ristoranti, vicino alla stazione, dove lei lo va a prendere ogni settimana. Poi il sabato vedono degli amici non meglio precisati e la domenica fanno delle gite in campagna. Io lui non l'ho mai incontrato, è solo una presenza rada nei discorsi di Sara, di solito sotto forma di “Carlo dice che...” e poi una qualche genere di predizione sul tempo o sulla politica.
Mi piace fare l'amore con Sara.
Quando comando io, lo faccio un po' come piace a me e un po' come piace a lei, democratico come sono sempre stato. Quando comanda lei, un po' lo fa con cura, sorridendo, da “manuale per orgasmi di classe”, poi se io non vengo, si stufa e gioca. Non è che giochi in modo spensierato, da ridere, ma sperimenta, improvvisa posizioni e movimenti, senza parlare, spiegandosi a gesti. Che cosa lei cerchi in questo suo modo di fare, non lo so, come non so se lo fa per lei, per me, o per chi. Non è dato sapere, mi dico sempre. Io ogni tanto penso a un'altra, ma cerco di farlo il meno possibile. Non perché Sara si risentirebbe, che chissà a chi a che cosa pensa lei, ma perché mi fa male.
Quando i pensieri imboccano la strada sbagliata finisce sempre che immagino la mia chitarra e il passero canterino che fischietta sul trespolo, il giorno che quell'altra se n'è andata, senza tornare. Allora per non piangere o dire sciocchezze a Sara, che di problemi ne ha già abbastanza senza i miei, penso che devo imparare la scienza di vivere senza soffrire. Mordo la ferita sul pollice e sento in bocca il sapore del sangue.
Torno in ufficio alle tre, e so di dover restare fino alle sette, per arrivare a otto ore. Ho dimenticato di fare una telefonata, e recupero subito, ma senza trovare la persona che sto cercando. Richiamerà. Richiamerò. Vado alla macchinetta a prendere una cocacola per cercare di svegliarmi. Mi viene incontro un collega che non sopporto che si mette a parlarmi di un problema con la stampante di rete. Vado a risolverglielo perché se no rompe le palle a tutto il piano, e anche per riempire un quarto d'ora.
Una volta che ho finito passo a salutare Renata, che parte per uno stage in Argentina, ed è nervosissima per il volo aereo. Tiro fuori dallo zaino un libricino che ho trovato a due euro, su come meditare in viaggio, e glielo regalo. Lei mi abbraccia forte e mi dice che se non ci fossi bisognerebbe inventarmi. Sì, no, non saprei, è quello che mi passa in testa. Sono bravo a fare regali, è vero. Farei volentieri a cambio con saper parlare agli amici, o anche solo saper giocare a calcio decentemente, ma temo di avere poca scelta. Le sorrido, le dico che andrà alla grande e torno in ufficio. Controllo facebook e la mail, sono tentato di fare una partita a scacchi in rete, poi lascio perdere e ricomincio a immettere dati nel database, senza musica, così, al naturale.
Passa l'uomo delle pulizie, un bengalese che si chiama Fanal o qualcosa del genere. Mi conosce, mi saluta come tutti i lunedì. Quando lo guardo penso che probabilmente vive con la moglie e i figli in venti metri quadri e non si lamenta. Mi fa sentire in colpa, perché io mi lamento sempre, e mi commisero parecchio. Apro il cassetto e prendo una pastiglia di anti-infiammatorio. Tra le malattie da stress e la mia decennale ipocondria, ho una farmacia sotto la scrivania, a cui periodicamente lascio che attingano anche colleghi bisognosi di un'aspirina, ma che chiudo a chiave quando torno a casa.
Alle sette meno un quarto mi arriva un sms. Il testo è un semplice “Scendi?”. Annuisco sapendo che è ora di andare. Metto il portatile nello zaino, mi alzo dalla sedia e vedo il telefono. Mi dò una pacca in testa. Ho dimenticato di fare quella telefonata. Chiamo rapidamente, guardando il numero da un post-it. Uno squillo, due squilli, tre squilli. Finalmente risponde, fisso l'appuntamento per domani alle sedici e trenta, buona serata e tanti saluti.
Seduto in macchina al posto del passeggero chiedo permesso e prendo una sigaretta dal pacchetto posato accanto al cambio. Pare che domani nevichi, dicono alla radio.
“Fa lo stesso, tanto ci siamo abituati.”
Ricevo in risposta una breve risata. Mai distrarre chi è concentrato sulla guida. L'aperitivo teatrale comincia alle sette e mezza, lo spettacolo alle otto.
Parcheggiamo a due isolati e scendo per primo. Faccio il giro intorno all'auto, un motorino cerca di investirmi, lo evito e apro la portiera. Paola scende e mi ringrazia, prende la borsetta dal sedile di dietro e chiude la macchina.
Si accende una sigaretta e mi guarda.
“Grazie che mi hai invitata.”
“Ma grazie a te.”
“No, davvero, è tantissimo che non vado a teatro e ti dico, mi piace un degenero ed è una di quelle cose che mi dico sempre, lo faccio, lo faccio, e poi non vado mai. Poi stasera c'è questa cosa francese, che anche se non ho capito bene dove vuole andare a parare, mi intriga un sacco, con la fisarmonica e il mare. Dovrei trasferirmi al mare prima o poi, è molto più adatto, anche d'inverno, l'acqua mi rilassa, sapessi poi il vento, mi piace tantissimo, mi copro con cappello e sciarpa e via in bici...”
La ascolto a metà, cercando più che altro di capire se pensa che ci sto provando o no, ad averla invitata. Più attento a leggere tra le righe che al succo del discorso, insomma. Entriamo, io dò i due biglietti che ho comprato ieri, ci accomodiamo nella sala ristorante con i suoi drappi rossi, e già piena di gente che aspetta che portino cibo. Bottiglie di vino bianco e rosso di scarsa qualità sono già aperte da un lato, sull'attenti per l'arrivo dei camerieri che a breve verseranno nei bicchieri.
Paola è simpatica, un po' nevrotica, ma senza esagerare, molto realista, con un padre invalido che va a trovare tutte le mattine prima di andare al lavoro. Ci esco ogni tanto, perché vorrei essere di più come lei, e spero di imparare qualcosa. È alta e magra, ha i capelli biondo spento e porta un paio di occhiali verde mela. Ci comincerei una storia, ma ho paura che mi dica di no, di aver già passato la soglia dell'amicizia da un po' e soprattutto che non mi piaccia davvero una volta che dovessimo stare insieme.
Ci serviamo di un po' di tutto, pasta fredda, patate al forno, salame cotto, mentre parliamo di libri e di musica jazz.
Mentre siamo seduti a teatro e lo spettacolo va, sognante e divertente, io ripenso ancora a qualcuno a cui non dovrei pensare. Ripenso a quando andavamo agli spettacoli insieme e ai concerti, e allo stadio, anche. È passato un anno e mezzo e non riesco a levarmi la sensazione dalla pelle. Gratto la ferita con l'unghia dell'indice, ma non riesco a farmi male. Forse dovrei stare in una vasca da bagno per un mese, forse dovrei ritirarmi su una montagna a leggere e bere tisane ayurvediche, forse dovrei bere di più. Paola mi guarda, lo spettacolo le piace, mima il gesto di battere le mani per strapparmi un sorriso. Non sa del mio passato, e neanche di Sara, ci conosciamo solo dall'inizio dell'anno, dieci mesi più o meno. Starnutisco, lei ride piano e un signore della fila davanti si gira e ci guarda male. Io gli faccio il dito medio quando si volta di nuovo, Paola ride ancora.
Giro la chiave nella toppa della porta. La spalanco, faccio un inchino e un cenno di passare avanti. Ma con me non c'è nessuno, sto solo recitando. Entro camminando all'indietro, dando libero sfogo alla parte più sciocca di me. Richiudo tutto, tolgo cappotto, scarpe, maglione con maglietta dentro, lasciando che tutto cada sul pavimento del corridoio.
A torso nudo e in jeans vado in bagno a dar da mangiare al passero. Lui fischietta per i cazzi suoi, e anche io faccio lo stesso. Lo guardo, lui saltella qua e là. Dovrei prendergli una gabbia più grande.
Piscio, spengo la luce e vado in cucina. Prendo un pacchetto di cracker e mi sposto in camera. A vederla, sfatta e impolverata, la mia camera da letto potrebbe essere fotografata col titolo di “monumento alla disillusione”.
Dovrei fare fuori il passero, anzi, lasciarlo libero in campagna, poi dare fuoco alla chitarra e cambiare città. Cambiare appartamento, cambiare lavoro, cambiare testa soprattutto.
La cosa più importante sarebbe salutare per bene quelli che mi hanno trattato bene qui. Gli amici, alcuni colleghi anche, ma non farei una festa di addio, mi darebbe brutte sensazioni anche quella.
Alzo le serrande e guardo fuori dalla finestra. Desidero una sigaretta che non ho e non andrò a comprare, perché tanto ho smesso, no?
Sorrido amaro, mi succhio la ferita e sussurro verso la notte qualcosa.
Qualcosa che domani avrò già dimenticato.
Tá fazendo um ano e meio, amor
Que o nosso lar desmoronou
Meu sabiá, meu violão
E uma cruel desilusão
Foi tudo que ficou
Ficou
Prá machucar meu coração
[da P'ra machucar meu coracao, traccia numero 3 di Getz/Gilberto di Stan Getz e Joao Gilberto, uscito nel marzo 1964 su etichetta Verve]
foto da flickr.com, utente Amanda Azzi, "laundry."
scritto da Alberto Lioy il 4 dicembre 2013