A un osservatore esterno sarebbe potuto apparire strano. Quell'uomo col suo incedere lento, con quel bastone leggermente strascicato, e il cappello in testa. In mezzo alla piazza, sotto l'albero, ogni giorno ci passava il pomeriggio. Chi lo avesse visto avrebbe potuto pensare che di passaggio. Che era la prima volta che passava di lì.
La piazza giaceva sotto tre grandi platani e le sedie dei due bar della parte pedonale si spartivano lo spazio equamente, come due reparti di fanteria nemici a cui è stato detto che non è ancora tempo di attaccare. La clientela si sedeva sempre nelle aree vicine al bancone del bar, un po' per essere serviti prima, un po' perché i primi tavoli erano più belli, mentre quelli lontani avevano le sedie di plastica.
Tornando ora al nostro uomo, passando di lì, lo avreste sempre visto al tavolo più centrale, più lontano da tutti, con le spalle voltate alla strada. Seduto lì, fuori posto, indossando vestiti d'altri tempi vi avrebbe probabilmente dato la senzazione di qualcuno terribilmente spaesato. Chi lo avesse visto ordinare al cameriere, poi, non avrebbe avuto dubbi. Questa era la scena che si presentava ogni giorno.
Il cameriere arrivava, abbozzava un sorriso, e diceva buonasera. Lui non rispondeva al saluto, ma chiedeva soltanto se avevano un menù. Al che il cameriere sorrideva e gli diceva che il menù era su tutti i tavoli, sotto il vetro. Lui a quel punto tirava fuori gli occhiali dal taschino della giacca grigia, intrecciata di fili spessi. Li portava senza astuccio, gli occhiali, forse aveva fatto foderare la tasca, perchè non erano rigati. Li inforcava rapido e si chinava sulle lettere colorate del menu. Tale menù era sempre lo stesso, stesse bevande calde, stesse birre, stessi spiriti forti, stesso paio di stuzzichini. Che poi per non far bere la gente a stomaco vuoto, il bar portava sempre qualcosa con la roba forte lo stesso. Solo chi veniva da fuori e non lo sapeva poteva chiederne e pagare.
L'uomo una volta letto tutto questo toglieva gli occhiali e li rimetteva a posto. Il cameriere paziente, non si muoveva, anche se magari doveva raccogliere i bicchieri da qualche altro tavolo, o salutare qualche amico di passaggio, o prendere un ordine. Stava lì, e aspettava. Aspettava finche l'uomo immancabilmente diceva
“Non mi so decidere tra caffé e tè.”
Il ragazzo sorrideva, lasciava passare qualche secondo e poi gli chiedeva
“Le porto un bicchiere d'acqua, mentre ci pensa?”
Al che lui alzava lo sguardo con stupore, come se pensasse che era davvero una buona idea, sempre come se fosse la prima volta. Annuiva serio e diceva
“Grazie, lei è molto gentile.” oppure, se faceva molto caldo “Con questo caldo e questa giacca, un bicchiere d'acqua va bene sempre.” e poi aggiungeva “Sa, col mestiere che faccio...” senza mai precisare di che si trattasse.
Nell'attesa si ravviava indietro i capelli impomatati, con le mani, o con un piccolo pettine che portava sempre con sé, ma di cui aveva vergogna, per come se lo nascondeva in mano quando si sistemava.
A chi lo sentisse descrivere senza averlo mai incontrato, l'immaginazione potrebbe portare l'immagine di un vecchio. Bene, sarebbe un errore. Perché per quanto antiquato il suo modo di fare e di parlare, per quanto fuori luogo il suo abbigliamento, da come lo ricordo io non aveva più di cinquant'anni di sicuro. Le rughe dovevano ancora attaccare gli occhi e la loro presenza sulla fronte dava solo la prova di un'attività di pensiero molto intensa.
Ma che cosa avrebbe mai potuto pensare nella sua testa non era certo di dominio pubblico. La gente fantasticava sulla sua professione. Molti lo dicevano un professore, altri uno scienziato, altri semplicemente un perdigiorno, un senzatetto.
Il padrone del bar era conciliante con lui, e lasciava che si sedesse lì, come se fosse stato su una panchina, senza lamentarsi del mancato guadagno. Forse aveva intuito più degli altri che una piccola attrazione turistica, una piccola leggenda non avrebbe certo fatto male al suo locale, specialmente una così inoffensiva. Si fosse trattato di una donna, non l'avrebbe lasciata passare così facilmente, diceva al cuoco il cameriere, e il cuoco annuiva sorridendo.
Il paese non era grande, ma neanche piccolo, non stava lontano dalla frontiera, e riceveva visite turistiche per la sua cascata e il museo dell'acqua all'aria aperta. Probabilmente il signore del tavolo non le aveva mai visitate. Lo sapevano perchè un giorno una vecchia, di quelle che non si fanno mai gli affari loro, aveva deciso di andargli a parlare. Nel suo completo nero da vedova, con gonna corta al ginocchio (un audace vezzo personale), si sedette al tavolo accanto a lui un pomeriggio. Lui che stava fissando lo spazio innanzi a sé, trasalì. Notando la vecchia, portò rapidamente una mano al viso e prese a grattarsi la guancia. Poi increspò le labbra come se volesse parlare ma non disse nulla. Più tardi quando la vecchia si sarebbe messa a raccontare della loro conversazione, nessuno seppe dire quanto di ciò che riferì fosse realtà e quanto fantasia. Fatto sta che l'informazione che la vecchia portava era che l'uomo stava lavorando. Era l'unica cosa sensata che aveva detto, a quanto pareva. Non era lì per turismo, non era lì per caso, non era lì perchè conosceva qualcuno. Era lì per una questione di lavoro. La vecchia era alquanto indispettita e insoddisfatta. Non era affatto abituata a che la gente le resistesse. Quando voleva sapere qualcosa la gente dopo un po' crollava e parlava. A chi non fosse del paese, di maligno aveva poco, dell'impicciona quasi tutto. Ad alcune domande lui direttamente aveva evitato di rispondere. Addirittura lei disse di averlo visto sudare quando lei gli chiese il suo nome.
Tutti rimasero in silenzio alla fine del discorso, condividendo un identico timore che non sarebbe più tornato. Si erano accorti, che pur nella sua estrema neutralità, era un elemento del paesaggio a cui non volevano rinunciare. Il cameriere, che si stava affezionando più degli altri, maledisse la vecchia in cuor suo.
Eppure il giorno dopo lui tornò, anzi parve che la vecchia un effetto l'avesse avuto.
Quando il cameriere arrivò a prendere l'ordinazione, l'uomo attese un momento e poi chiese se c'era un posacenere. Il cameriere sorrise e senza parlare indicò quello che era appoggiato sul tavolo.
L'uomo ringraziò con un cenno della testa e poi chiese del menù, per poi reagire col consueto imbarazzo alla scena giornaliera.
Il cameriere tornò al bar assai sollevato e pensò che forse l'uomo fumava, che avrebbe potuto portargli delle sigarette l'indomani, o magari dei sigari. Ma poi lasciò perdere, dicendosi che era meglio non turbare un personaggio così delicato.
La gente viveva con leggerezza le lunghe estati di quel paese, sapendo che anche se non duravano per sempre, duravano abbastanza. Tanti stavano fuori al bar quando non avevano niente da fare, anche solo per un caffé o per chiacchierare, o ci trattavano gli affari portandosi dietro un cliente.
Il cameriere nei giorni di quiete guardava quell'uomo trascorrere lunghe ore seduto al tavolo. Cercava di immaginarne i pensieri, l'occupazione, ne scrutava il viso ora corrugato, ora disteso, ora indifferente. Non lo aveva mai visto sorridere, e questo lo faceva star male. Per qualche ragione gli piaceva credere che quell'uomo stesse combattendo per qualcosa, forse per se stesso, e che un grande trauma, una grande tragedia, lo avesse ucciso un po', e forse, un giorno, vicino o lontano, avrebbe potuto riprendere a parlare con la gente.
Altre volte, si sorprendeva ad inventare storie riguardo a lui. Si diceva che le ore passate al tavolo erano le sue ore di silenzio, che si imponeva per una questione di autodisciplina. Magari era stato un monaco di clausura in una vita precedente, e si era abituato a non avere relazioni con il mondo, o forse aveva trascorso un periodo in ospedale e gli avevano fatto l'elettroshock, per cui sembrava inebetito. Giorno dopo giorno, il cameriere vestiva l'uomo con i panni che gli venivano in mente, sempre nuovi e sempre diversi, spia, ladro, benefattore, vedovo, ma senza mai essere soddisfatto, nè allo stesso tempo, deluso. Più volte meditò di seguirlo quando se ne andava, giusto per una questione di curiosità. Ma lasciò perdere, dato che lui staccava sempre dopo che l'uomo era già andato via da un pezzo, e anche per non violare la vita privata di una persona così racchiusa in sé. Finché si trattava di immaginare, di restare fuori dalla realtà, quell'uomo poteva essere chiunque. Una volta che ne avesse saputo di più, le maschere di cui lo vestiva sarebbero cadute. Temeva che ci sarebbe rimasto male nella maggior parte dei casi, e con una scrollata di spalle andava a raccogliere un altro ordine.
Un sabato notte, dopo aver staccato, si mise a parlarne con la sua fidanzata. Le espose le varie possibili ipotesi, e dopo che lei lo ebbe ascoltato paziente, le chiese un parere. Lei sorrise, gli mise una mano tra i capelli, e gli disse “Chiunque sia quell'uomo, siete molto diversi.”
Lui sorrise di rimando, e lasciò perdere il discorso. Non voleva che la sua simpatia e il suo fantasticare diventassero un ossessione, e si ripromise di non annoiare più la gente con le sue congetture.
L'ultima settimana di agosto, nel paese si teneva una grande festa, a cui tutti, giovani e vecchi partecipavano con entusiasmo. Era una lunga tradizione, e attirava turisti e curiosi. Quell'anno si festeggiava un anniversario importante, e sarebbero venute le autorità dalla capitale.
Nel bar si respirava l'aria della festa già una settimana prima. Addobbi e vecchie fotografie arricchivano l'ambiente. I clienti che venivano da fuori chiedevano notizie, e anche se la storia del bar datava solo trent'anni prima, la casa in cui era situato era una di quelle di una volta, con il primo piano sporgente, senza balcone. Il padrone sedeva orgoglioso su un panchetto fuori dal locale e elargiva sorrisi a tutti quelli che passavano da lui dopo aver pagato il conto. Persino il tavolo del solitario signore venne lambito dalla gente vicina e fortunatamente vista l'ora presta a cui arrivava, mai nessuno glielo aveva sottratto.
Quando il festival iniziò, la città era nel suo massimo splendore. Le vie erano state ripulite, tutti i volantini e i programmi degli eventi stampati. Gli alberghi erano tutti pieni, per la prima volta da anni, nonostante la crisi economica. La pubblicità e l'appoggio del governo avevano dato buoni frutti.
Il proprietario del locale fece una battuta al cameriere il giorno di apertura. “Scommettiamo che non viene?” Il cameriere fu tentato di far finta di niente e chiedere a chi si riferisse. Poi scrollò le spalle, come se avesse fatto poca differenza, sorrise al padrone e andò a guardare la lista delle birre alla spina nuove arrivate il giorno prima. Ovviamente ci pensò su, temette che la folla l'avrebbe ricacciato indietro, che non avrebbe amato tutto quel casino, uno che non sapeva decidere tra caffé e té, e finiva con non ordinare mai niente. Ma tra sé e sé pensò anche che se certe cose devono accadere è per un loro destino e che dobbiamo lasciare andare, senza intervenire.
Quando fu l'ora però l'uomo arrivò, per quanto sull'altro lato della piazza il palco con le musiche fosse pronto per iniziare. Il cameriere prese il vassoio e andò da lui, cercando di contenere una fanciullesca gioia. Si rimproverò per essere così felice, ma allo stesso tempo gli sembrò un buon segnale che l'uomo fosse lì, nonostante la folla.
“Buonasera! Ha visto quanta gente!” fece il giovane.
L'uomo grugnì, strinse gli occhi guardando nella sua direzione. Il cameriere attendeva, voleva vedere se avrebbe rotto il copione, se avrebbe fatto qualcosa di inaspettato. L'altro si grattò il naso e disse “Avete un menù?”
Il cameriere scosse la testa e la scena si svolse come di consueto, ma dietro al sorriso bonario del giovane c'era un senso di rassegnazione che mai prima di quel giorno aveva provato. Mentre ritornava, come al solito senza un ordine, la musica iniziò sull'altro lato. Quanto avrebbe voluto poter non lavorare, poter staccare per quel giorno, e unirsi alle danze, al posto di pensare ai clienti, e farsi delle aspettative su quell'uomo.
La fine del festival arrivò troppo presto, come sempre accade, quando un evento è a lungo atteso e arriva al termine di un'allegra stagione. La domenica pioveva una coperta di gocce sottili, lasciate andare da uno di quei cieli di nuvole tanto compatti da sembrare di latte. Era il primo di settembre. Tutte le autorità nazionali erano presenti e tennero un lungo discorso, glorificando il festival e la tradizione. I malpensanti, che spesso ci azzeccano dissero che c'erano tutti un po' per non mostrarsi a far vacanze all'estero da ricconi e soprattutto perché era vicina la campagna elettorale. Comunque, nonostante i politici e qualche fischio, era stata un'ottima edizione, tanto per il paese quanto per i turisti, tra chi era riuscito a risparmiare soldi e chi a farli.
L'evento finale prevedeva una sfilata di auto d'epoca, con la scorta per quella del presidente, una pacchianata su modello americano, che poco si confaceva a una piccola democrazia europea. Tutti erano intenti a guardare, sapendo che poi ci sarebbe stata la consueta gara a dire chi aveva visto chi di famoso. A quel punto sarebbero mancati solo i fuochi d'artificio sul lago qualche ora dopo.
Il cameriere sedeva su uno sgabello alto davanti alla porta, nessuno si preoccupava di ordinare in quel momento. Guardava ancora l'uomo, che completamente disinteressato, si stava osservando le mani. Il giovane scosse la testa e guardò la sfilata di automobili a pochi metri dal tavolo dove la'ltro sedeva ogni giorno. Pensava alla differenza. A che cos'é che ci fa diversi, ricchi e poveri, potenti e nullità. In quell'istante si rese conto che per uno come quello lì, di posto ce n'era poco in una società dove la gente si fa avanti a spintoni. Che gli uomini e le donne che passavano su quelle automobili, mettendo in mostra i loro sorrisi migliori, sarebbero stati in grado di decidere tra caffé e té. Sempre e comunque, anche quando il caffé o il té loro lo detestavano, e che questo in un modo o nell'altro era quello che faceva tutta la differenza.
the man, in the middle of the motorcade, can choose between coffee and tea.
[da Motorcade, traccia numero 6 dell'album Real Life dei Magazine, uscito nell'aprile 1978 su etichetta Virgin]
foto da flickr.com, utente Hunter-Deportes, sfilata presidenziale a Columbia, South Carolina, USA, gennaio 1973
scritto da Alberto Lioy, tra il 29 settembre e il 1° ottobre 2012
La piazza giaceva sotto tre grandi platani e le sedie dei due bar della parte pedonale si spartivano lo spazio equamente, come due reparti di fanteria nemici a cui è stato detto che non è ancora tempo di attaccare. La clientela si sedeva sempre nelle aree vicine al bancone del bar, un po' per essere serviti prima, un po' perché i primi tavoli erano più belli, mentre quelli lontani avevano le sedie di plastica.
Tornando ora al nostro uomo, passando di lì, lo avreste sempre visto al tavolo più centrale, più lontano da tutti, con le spalle voltate alla strada. Seduto lì, fuori posto, indossando vestiti d'altri tempi vi avrebbe probabilmente dato la senzazione di qualcuno terribilmente spaesato. Chi lo avesse visto ordinare al cameriere, poi, non avrebbe avuto dubbi. Questa era la scena che si presentava ogni giorno.
Il cameriere arrivava, abbozzava un sorriso, e diceva buonasera. Lui non rispondeva al saluto, ma chiedeva soltanto se avevano un menù. Al che il cameriere sorrideva e gli diceva che il menù era su tutti i tavoli, sotto il vetro. Lui a quel punto tirava fuori gli occhiali dal taschino della giacca grigia, intrecciata di fili spessi. Li portava senza astuccio, gli occhiali, forse aveva fatto foderare la tasca, perchè non erano rigati. Li inforcava rapido e si chinava sulle lettere colorate del menu. Tale menù era sempre lo stesso, stesse bevande calde, stesse birre, stessi spiriti forti, stesso paio di stuzzichini. Che poi per non far bere la gente a stomaco vuoto, il bar portava sempre qualcosa con la roba forte lo stesso. Solo chi veniva da fuori e non lo sapeva poteva chiederne e pagare.
L'uomo una volta letto tutto questo toglieva gli occhiali e li rimetteva a posto. Il cameriere paziente, non si muoveva, anche se magari doveva raccogliere i bicchieri da qualche altro tavolo, o salutare qualche amico di passaggio, o prendere un ordine. Stava lì, e aspettava. Aspettava finche l'uomo immancabilmente diceva
“Non mi so decidere tra caffé e tè.”
Il ragazzo sorrideva, lasciava passare qualche secondo e poi gli chiedeva
“Le porto un bicchiere d'acqua, mentre ci pensa?”
Al che lui alzava lo sguardo con stupore, come se pensasse che era davvero una buona idea, sempre come se fosse la prima volta. Annuiva serio e diceva
“Grazie, lei è molto gentile.” oppure, se faceva molto caldo “Con questo caldo e questa giacca, un bicchiere d'acqua va bene sempre.” e poi aggiungeva “Sa, col mestiere che faccio...” senza mai precisare di che si trattasse.
Nell'attesa si ravviava indietro i capelli impomatati, con le mani, o con un piccolo pettine che portava sempre con sé, ma di cui aveva vergogna, per come se lo nascondeva in mano quando si sistemava.
A chi lo sentisse descrivere senza averlo mai incontrato, l'immaginazione potrebbe portare l'immagine di un vecchio. Bene, sarebbe un errore. Perché per quanto antiquato il suo modo di fare e di parlare, per quanto fuori luogo il suo abbigliamento, da come lo ricordo io non aveva più di cinquant'anni di sicuro. Le rughe dovevano ancora attaccare gli occhi e la loro presenza sulla fronte dava solo la prova di un'attività di pensiero molto intensa.
Ma che cosa avrebbe mai potuto pensare nella sua testa non era certo di dominio pubblico. La gente fantasticava sulla sua professione. Molti lo dicevano un professore, altri uno scienziato, altri semplicemente un perdigiorno, un senzatetto.
Il padrone del bar era conciliante con lui, e lasciava che si sedesse lì, come se fosse stato su una panchina, senza lamentarsi del mancato guadagno. Forse aveva intuito più degli altri che una piccola attrazione turistica, una piccola leggenda non avrebbe certo fatto male al suo locale, specialmente una così inoffensiva. Si fosse trattato di una donna, non l'avrebbe lasciata passare così facilmente, diceva al cuoco il cameriere, e il cuoco annuiva sorridendo.
Il paese non era grande, ma neanche piccolo, non stava lontano dalla frontiera, e riceveva visite turistiche per la sua cascata e il museo dell'acqua all'aria aperta. Probabilmente il signore del tavolo non le aveva mai visitate. Lo sapevano perchè un giorno una vecchia, di quelle che non si fanno mai gli affari loro, aveva deciso di andargli a parlare. Nel suo completo nero da vedova, con gonna corta al ginocchio (un audace vezzo personale), si sedette al tavolo accanto a lui un pomeriggio. Lui che stava fissando lo spazio innanzi a sé, trasalì. Notando la vecchia, portò rapidamente una mano al viso e prese a grattarsi la guancia. Poi increspò le labbra come se volesse parlare ma non disse nulla. Più tardi quando la vecchia si sarebbe messa a raccontare della loro conversazione, nessuno seppe dire quanto di ciò che riferì fosse realtà e quanto fantasia. Fatto sta che l'informazione che la vecchia portava era che l'uomo stava lavorando. Era l'unica cosa sensata che aveva detto, a quanto pareva. Non era lì per turismo, non era lì per caso, non era lì perchè conosceva qualcuno. Era lì per una questione di lavoro. La vecchia era alquanto indispettita e insoddisfatta. Non era affatto abituata a che la gente le resistesse. Quando voleva sapere qualcosa la gente dopo un po' crollava e parlava. A chi non fosse del paese, di maligno aveva poco, dell'impicciona quasi tutto. Ad alcune domande lui direttamente aveva evitato di rispondere. Addirittura lei disse di averlo visto sudare quando lei gli chiese il suo nome.
Tutti rimasero in silenzio alla fine del discorso, condividendo un identico timore che non sarebbe più tornato. Si erano accorti, che pur nella sua estrema neutralità, era un elemento del paesaggio a cui non volevano rinunciare. Il cameriere, che si stava affezionando più degli altri, maledisse la vecchia in cuor suo.
Eppure il giorno dopo lui tornò, anzi parve che la vecchia un effetto l'avesse avuto.
Quando il cameriere arrivò a prendere l'ordinazione, l'uomo attese un momento e poi chiese se c'era un posacenere. Il cameriere sorrise e senza parlare indicò quello che era appoggiato sul tavolo.
L'uomo ringraziò con un cenno della testa e poi chiese del menù, per poi reagire col consueto imbarazzo alla scena giornaliera.
Il cameriere tornò al bar assai sollevato e pensò che forse l'uomo fumava, che avrebbe potuto portargli delle sigarette l'indomani, o magari dei sigari. Ma poi lasciò perdere, dicendosi che era meglio non turbare un personaggio così delicato.
La gente viveva con leggerezza le lunghe estati di quel paese, sapendo che anche se non duravano per sempre, duravano abbastanza. Tanti stavano fuori al bar quando non avevano niente da fare, anche solo per un caffé o per chiacchierare, o ci trattavano gli affari portandosi dietro un cliente.
Il cameriere nei giorni di quiete guardava quell'uomo trascorrere lunghe ore seduto al tavolo. Cercava di immaginarne i pensieri, l'occupazione, ne scrutava il viso ora corrugato, ora disteso, ora indifferente. Non lo aveva mai visto sorridere, e questo lo faceva star male. Per qualche ragione gli piaceva credere che quell'uomo stesse combattendo per qualcosa, forse per se stesso, e che un grande trauma, una grande tragedia, lo avesse ucciso un po', e forse, un giorno, vicino o lontano, avrebbe potuto riprendere a parlare con la gente.
Altre volte, si sorprendeva ad inventare storie riguardo a lui. Si diceva che le ore passate al tavolo erano le sue ore di silenzio, che si imponeva per una questione di autodisciplina. Magari era stato un monaco di clausura in una vita precedente, e si era abituato a non avere relazioni con il mondo, o forse aveva trascorso un periodo in ospedale e gli avevano fatto l'elettroshock, per cui sembrava inebetito. Giorno dopo giorno, il cameriere vestiva l'uomo con i panni che gli venivano in mente, sempre nuovi e sempre diversi, spia, ladro, benefattore, vedovo, ma senza mai essere soddisfatto, nè allo stesso tempo, deluso. Più volte meditò di seguirlo quando se ne andava, giusto per una questione di curiosità. Ma lasciò perdere, dato che lui staccava sempre dopo che l'uomo era già andato via da un pezzo, e anche per non violare la vita privata di una persona così racchiusa in sé. Finché si trattava di immaginare, di restare fuori dalla realtà, quell'uomo poteva essere chiunque. Una volta che ne avesse saputo di più, le maschere di cui lo vestiva sarebbero cadute. Temeva che ci sarebbe rimasto male nella maggior parte dei casi, e con una scrollata di spalle andava a raccogliere un altro ordine.
Un sabato notte, dopo aver staccato, si mise a parlarne con la sua fidanzata. Le espose le varie possibili ipotesi, e dopo che lei lo ebbe ascoltato paziente, le chiese un parere. Lei sorrise, gli mise una mano tra i capelli, e gli disse “Chiunque sia quell'uomo, siete molto diversi.”
Lui sorrise di rimando, e lasciò perdere il discorso. Non voleva che la sua simpatia e il suo fantasticare diventassero un ossessione, e si ripromise di non annoiare più la gente con le sue congetture.
L'ultima settimana di agosto, nel paese si teneva una grande festa, a cui tutti, giovani e vecchi partecipavano con entusiasmo. Era una lunga tradizione, e attirava turisti e curiosi. Quell'anno si festeggiava un anniversario importante, e sarebbero venute le autorità dalla capitale.
Nel bar si respirava l'aria della festa già una settimana prima. Addobbi e vecchie fotografie arricchivano l'ambiente. I clienti che venivano da fuori chiedevano notizie, e anche se la storia del bar datava solo trent'anni prima, la casa in cui era situato era una di quelle di una volta, con il primo piano sporgente, senza balcone. Il padrone sedeva orgoglioso su un panchetto fuori dal locale e elargiva sorrisi a tutti quelli che passavano da lui dopo aver pagato il conto. Persino il tavolo del solitario signore venne lambito dalla gente vicina e fortunatamente vista l'ora presta a cui arrivava, mai nessuno glielo aveva sottratto.
Quando il festival iniziò, la città era nel suo massimo splendore. Le vie erano state ripulite, tutti i volantini e i programmi degli eventi stampati. Gli alberghi erano tutti pieni, per la prima volta da anni, nonostante la crisi economica. La pubblicità e l'appoggio del governo avevano dato buoni frutti.
Il proprietario del locale fece una battuta al cameriere il giorno di apertura. “Scommettiamo che non viene?” Il cameriere fu tentato di far finta di niente e chiedere a chi si riferisse. Poi scrollò le spalle, come se avesse fatto poca differenza, sorrise al padrone e andò a guardare la lista delle birre alla spina nuove arrivate il giorno prima. Ovviamente ci pensò su, temette che la folla l'avrebbe ricacciato indietro, che non avrebbe amato tutto quel casino, uno che non sapeva decidere tra caffé e té, e finiva con non ordinare mai niente. Ma tra sé e sé pensò anche che se certe cose devono accadere è per un loro destino e che dobbiamo lasciare andare, senza intervenire.
Quando fu l'ora però l'uomo arrivò, per quanto sull'altro lato della piazza il palco con le musiche fosse pronto per iniziare. Il cameriere prese il vassoio e andò da lui, cercando di contenere una fanciullesca gioia. Si rimproverò per essere così felice, ma allo stesso tempo gli sembrò un buon segnale che l'uomo fosse lì, nonostante la folla.
“Buonasera! Ha visto quanta gente!” fece il giovane.
L'uomo grugnì, strinse gli occhi guardando nella sua direzione. Il cameriere attendeva, voleva vedere se avrebbe rotto il copione, se avrebbe fatto qualcosa di inaspettato. L'altro si grattò il naso e disse “Avete un menù?”
Il cameriere scosse la testa e la scena si svolse come di consueto, ma dietro al sorriso bonario del giovane c'era un senso di rassegnazione che mai prima di quel giorno aveva provato. Mentre ritornava, come al solito senza un ordine, la musica iniziò sull'altro lato. Quanto avrebbe voluto poter non lavorare, poter staccare per quel giorno, e unirsi alle danze, al posto di pensare ai clienti, e farsi delle aspettative su quell'uomo.
La fine del festival arrivò troppo presto, come sempre accade, quando un evento è a lungo atteso e arriva al termine di un'allegra stagione. La domenica pioveva una coperta di gocce sottili, lasciate andare da uno di quei cieli di nuvole tanto compatti da sembrare di latte. Era il primo di settembre. Tutte le autorità nazionali erano presenti e tennero un lungo discorso, glorificando il festival e la tradizione. I malpensanti, che spesso ci azzeccano dissero che c'erano tutti un po' per non mostrarsi a far vacanze all'estero da ricconi e soprattutto perché era vicina la campagna elettorale. Comunque, nonostante i politici e qualche fischio, era stata un'ottima edizione, tanto per il paese quanto per i turisti, tra chi era riuscito a risparmiare soldi e chi a farli.
L'evento finale prevedeva una sfilata di auto d'epoca, con la scorta per quella del presidente, una pacchianata su modello americano, che poco si confaceva a una piccola democrazia europea. Tutti erano intenti a guardare, sapendo che poi ci sarebbe stata la consueta gara a dire chi aveva visto chi di famoso. A quel punto sarebbero mancati solo i fuochi d'artificio sul lago qualche ora dopo.
Il cameriere sedeva su uno sgabello alto davanti alla porta, nessuno si preoccupava di ordinare in quel momento. Guardava ancora l'uomo, che completamente disinteressato, si stava osservando le mani. Il giovane scosse la testa e guardò la sfilata di automobili a pochi metri dal tavolo dove la'ltro sedeva ogni giorno. Pensava alla differenza. A che cos'é che ci fa diversi, ricchi e poveri, potenti e nullità. In quell'istante si rese conto che per uno come quello lì, di posto ce n'era poco in una società dove la gente si fa avanti a spintoni. Che gli uomini e le donne che passavano su quelle automobili, mettendo in mostra i loro sorrisi migliori, sarebbero stati in grado di decidere tra caffé e té. Sempre e comunque, anche quando il caffé o il té loro lo detestavano, e che questo in un modo o nell'altro era quello che faceva tutta la differenza.
the man, in the middle of the motorcade, can choose between coffee and tea.
[da Motorcade, traccia numero 6 dell'album Real Life dei Magazine, uscito nell'aprile 1978 su etichetta Virgin]
foto da flickr.com, utente Hunter-Deportes, sfilata presidenziale a Columbia, South Carolina, USA, gennaio 1973
scritto da Alberto Lioy, tra il 29 settembre e il 1° ottobre 2012