Ho sempre vissuto in un paese di campagna, niente turisti, niente bordelli niente casinò. Un posto come tanti, verrebbe da dire. Senonché noi abbiamo avuto la nostra leggenda, qualcosa che nei dintorni tutti ci invidiano.
La leggenda aveva per nome Giovanni, anche se tutti lo chiamavano John, seguendo la moda del periodo o forse un suo espresso desiderio. Era un rosso di capelli, con tutto quello che poteva aver comportato da bambino in termini di prese in giro, scherzi e botte, in un posto dove tutti sono scuri. Crescendo però, era diventato più grosso di tutti gli altri, tanto che già a quattordici anni, nessuno si sarebbe arrischiato a mettere le mani addosso a quel metro e ottanta.
Era uno spettacolo vederlo uscire con la sua famiglia, padre madre e sorella, tutti coi capelli neri e piccoli di statura. La gente li sautava anche quando non li conosceva, e presto garantì una certa notorietà al negozio di suo padre.
John aveva cominciato a boxare tardi, su consiglio dell'insegnante di ginnastica, che non vedeva perchè il ragazzo, che era un bersaglio mobile, non potesse imparare a difendersi, e perché no, a contrattaccare. L'aveva indirizzato a una scuola di karate, ma a sua madre non piacevano tutti quei rituali e la filosofia zen, così, gli disse, o la boxe, come la gente normali, o niente. Lui si era voltato verso suo padre, che aveva annuito, con una punta di invidia per non averci mai pensato lui e aver sempre giocato a calcio come tutti gli altri.
Quando lui era bambino ogni tanto qualcuno si permetteva di far battute, correlando al pelo rosso presunte infedeltà coniugali, ma ogni volta suo padre scoppiava a ridere, e si metteva a raccontare di suo nonno, rosso di capelli e debole di cuore, lui sì, nato quando la sua bisnonna era scappata per un mese dal marito che la picchiava ed era tornata incinta di un marinaio irlandese.
John e io ci conoscemmo per caso. Pur avendo solo un anno di differenza non avevamo fatto la stessa scuola, e anche se facevamo la spesa allo stesso mercato, non ci eravamo mai incontrati.
Del giorno che lo vidi la prima volta ricordo tutto come fosse oggi. Avevo sedici anni, e frequentavo assiduamente i bar, dove, di nascosto da mia madre, buttavo giù le prime grappe e i primi bicchieri di vino con i pensionati del paese. Lui era seduto lì con una delle sue fidanzatine, il cui nonno era lì presente e li controllava mentre giocava a scopone. Gli altri vecchi ed io ridevamo di loro, di questo ragazzone rosso, che non poteva a stare da solo con la fidanzata, e che stava lì zitto a sorbire una Coca-Cola, mentre lei gli parlava. A un certo punto lui, che evidentemente non ne poteva più, venne a pagare al bancone. Allora, come credo anche ora, non sapeva muoversi in una stanza, e mi urtò, mandando il mio braccio contro il mio bicchiere di vino, che si versò completamente sul bancone. Non se ne accorse nemmeno, prese il resto e si avviò verso la porta.
Io, che avevo bevuto più che abbastanza, gli urlai dietro non so che cosa. Lui si voltò, incredulo, e fece un passo verso di me, che gonfio di rabbia come un coglione, gli andai incontro e lo afferrai per il collo del maglione. Nel bar scese il silenzio, tutti guardavano solo noi, convinti, che un paio di minuti dopo sarebbe servita l'ambulanza, o magari il becchino.
Lui mi prese la mano, la tolse dal suo collo, prese una bottiglia che stava sul bancone, la alzò e mi versò un altro bicchiere. Fece cenno che bevessi. Io, che avevo iniziato a sudare freddo, lo bevvi di un fiato. Allora lui mi mise una mano sulla spalla e uscì con me, mollando lì la fidanzata. Il resto del bar ci seguì, chi con gli occhi, chi coi piedi, attendendo che la regolasse fuori. Lui invece mi disse di camminare.
Andammo in giro per strada, io che mi facevo portare da lui, come al guinzaglio, e lui che non fiatava e mi diceva dove voltare. Arrivati davanti alla palestra mi chiese se volevo tirare di boxe.
Io arricciai il naso, mi interessava poco, e glielo dissi, lui propose allora che entrassi a vederlo. La palestra era vecchia e grande, con grandi luci sul soffitto, lui non salutò nessuno, si tolse la giacca e cominciò a tirare al sacco. Restai ammirato dal suo stile. Era possente, ma elegante, e sembrava che stesse combattendo contro qualche cosa di vivo, dal modo in cui si spostava e colpiva.
Rimasi per tutto l'allenamento, fino a che non spensero le luci. Quando uscimmo insieme dalla palestra, gli chiesi perché non mi avesse picchiato. Lui alzò le spalle e mi disse che era stato stupendo che io non avessi avuto paura. Gli ero sembrato un pazzo, ma un pazzo buono, con qualche speranza. Io arrossii. Non mi ero mai sentito tanto fortunato in vita mia.
Così cominciai a frequentarlo, ma quando mia madre lo seppe, si spaventò. A differenza di me, lei conosceva lui e la sua famiglia, e andava spesso a comprare la carne nella macelleria di suo padre. Per qualche istintiva ragione, non le piaceva che mi accompagnassi con quel ragazzo troppo cresciuto, e che, se tirava di boxe, era un violento di sicuro. Invano avevo cercato di spiegarle che era un ragazzo tranquillo, ma anche se mi fosse stata a sentire certo non poteva avere idea di quanto enorme fosse stato il salto di qualità, nella mia compagnia.
Per me, andavo a scuola sempre più raramente, la palestra fu un luogo dove imparare tutto. Tattica, colpi, idee, divenni un fissato della boxe, e un esperto, pur non avendo mai tirato. Gli allenatori, che per mesi mi avevano guardato fissare la preparazione in silenzio, videro in me uno di loro, quando mi sentirono un pomeriggio dare a John gli stessi consigli che gli avrebbero dato loro. Divenni il tuttofare e, per qualche mese, il terzo di John.
Lui si allenava tutti i giorni, anche di domenica, sempre seguito dal Santo. Il Santo era stato il fondatore della palestra vent'anni prima, ma per una questione di debiti di gioco, aveva dovuto venderla agli strozzini, che l'avevano girata a loro volta a un gruppo di trafficanti marocchini, che non sapendo cosa farsene l'avevano lasciata gestire al Santo, per cui poco era cambiato in sostanza. Il Santo in realtà si chiamava Kevin, ed era un inglese, un biondo con baffi d'altri tempi, piccolo di statura e animoso. I ragazzi che cominciavano a boxare gli facevano il verso, ma lui il rispetto se lo guadagnava combattendo con loro come se avesse avuto ancora sedici anni.
Con John andavano d'accordo facilmente. Il Santo parlava, a macchinetta, gesticolando, e John ascoltava annuendo. Ogni tanto John si mordeva la guancia, segno che non gli piaceva quello che Kevin diceva, ma stava zitto lo stesso. Il Santo aveva molto rispetto per John, e sapeva che un pugile così non gli sarebbe più ricapitato.
John intanto aveva scoperto che combattere gli piaceva. Si allenava, mangiava, beveva, cambiava una fidanzata al mese, senza mai tradirne una, ma tutto apparentemente solo per la boxe.
Ovviamente vinceva. Vinceva per ko, specie contro i più agili, che lo attaccavano senza sosta. Lui incassava, come aveva imparato alle elementari, e poi, quando tutti l'avrebbero dato perdente ai punti, stendeva l'avversario. Gli incontri locali erano sempre pieni di gente, anche perché la nostra squadra di calcio faceva schifo e tutti ci avevano sempre preso in giro. Grazie a John smisero.
Non amava discuterne. Preferiva parlare di calcio o di ragazze. Aveva una predilezione per quelle piccole di statura, che però avevano paura di lui, e finiva sempre con l'essere insoddisfatto delle vistose maggiorate a cui cedeva. In pubblico era sempre zitto, e esibiva rari sorrisi qua e là.
Quando attaccava a parlare di cose importanti, io lo stavo ad ascoltare attento, perchè mi sembrava incredibile che lui fosse mio amico, e pensavo che la sua amicizia me la dovessi guadagnare giorno per giorno, perché lui non si accorgesse della nullità che ero.
In paese tutti parlavano di lui. Era la gloria locale, il nostro punto più alto. Un gruppo di ragazzi dell'unica scuola superiore gli dedicarono una canzone.
Io ero il migliore amico di una canzone, di una gloria, ma di una fatta di carne ed ossa, che mangiava, beveva, pensava (credo di non aver mai conosciuto nessuno che pensasse tanto), e tirava di boxe.
Per un po' rimase con noi, tempo di qualche anno, poi i marocchini, come se fosse stato anche lui proprietà loro, se lo vennero a prendere. Il Santo protestò, sputò per terra, agitò le braccia, mostrò i pugni, disse che non glielo potevano fare. A un certo punto uno di quelli tirò fuori un coltello, e il Santo, come se non avesse sentito, si girò di spalle e continuò a sacramentare, ma se ne andò via.
Nessuno in paese si stupì, tutti sapevamo che il paese era troppo piccolo per John.
Quando fu l'ora, John venne sotto casa mia, accompagnato dalla Mercedes del suo nuovo manager. Io ero sulla soglia che lo aspettavo. Ci sedemmo sui gradini e parlammo a lungo, lui cercò in tutti i modi di convincermi ad andare con lui, parlò di guadagni e donne, ma io ero e sono un provinciale, le grandi città mi fanno venire il mal di testa, e lo smog la nausea. Sapevo di non aver scelta, con mia madre inginocchiata con il rosario in mano sul pavimento della sua camera da letto. Gli dissi che ero l'uomo di casa, e avevo avuto la mia dose di divertimento. Lui scosse la testa tante volte, poi mi mise una mano sulla spalla e sorrise senza dire niente. Io chiusi gli occhi forte per trattenere le lacrime e lasciai che risalisse in macchina.
Il giorno dopo andai in fabbrica a reclamare il posto che mi spettava da quando mio padre era morto sotto una pressa a caldo. Lentamente divenni popolare nel sindacato, e cercai di insegnare alla gente a battersi come avevo imparato in palestra. Allenai insieme al Santo fino a quando morì di cancro ai polmoni, poi i marocchini decisero di abbattere la palestra e di farci due campi di calcio a cinque.
John l'ho sempre seguito sui giornali, specie quando vinse il titolo nazionale un paio di anni dopo. So che si è ritirato a ventotto anni ha sposato una ballerina bulgara alta un metro e cinquanta e ci ha fatto due figlie, l'ha letto mia madre su una rivista scandalistica. I suoi hanno ancora la macelleria, e lui gli ha comprato una panetteria e un negozio di frutta e verdura, che le due sorelle gestiscono. Oggi vive in America e qui non è mai più tornato. Sarebbe ricevuto con tutti gli onori, e in paese tutti dicono che è un ingrato e uno sciocco. Quando parlano di lui io sputo per terra, come farebbe anche il Santo se fosse ancora vivo. Io penso che è proprio per gente come loro che lui non torna, lui che era partito perché era troppo grande per un posto, non era partito per tornare. Perché se hai combattuto per un villaggio intero, per sopravvivere ancora dovrai scrollartelo dalle spalle.
where is my town the place I love
where I can stay for all time
don't knock it down or build it up
this is my home for all time
St. Kevin taught me how
John the boxer is braver now
Phil the captain of the cause
fight you fight for what is yours
what is yours
[da The Highest High, traccia numero 1 dell'album Flaunt The Imperfection dei China Crisis, uscito nel gennaio 1985 su etichetta Virgin]
foto da flickr.com, utente Esther17, Everlast
scritto da Alberto Lioy tra il 10 e il 12 novembre 2012
La leggenda aveva per nome Giovanni, anche se tutti lo chiamavano John, seguendo la moda del periodo o forse un suo espresso desiderio. Era un rosso di capelli, con tutto quello che poteva aver comportato da bambino in termini di prese in giro, scherzi e botte, in un posto dove tutti sono scuri. Crescendo però, era diventato più grosso di tutti gli altri, tanto che già a quattordici anni, nessuno si sarebbe arrischiato a mettere le mani addosso a quel metro e ottanta.
Era uno spettacolo vederlo uscire con la sua famiglia, padre madre e sorella, tutti coi capelli neri e piccoli di statura. La gente li sautava anche quando non li conosceva, e presto garantì una certa notorietà al negozio di suo padre.
John aveva cominciato a boxare tardi, su consiglio dell'insegnante di ginnastica, che non vedeva perchè il ragazzo, che era un bersaglio mobile, non potesse imparare a difendersi, e perché no, a contrattaccare. L'aveva indirizzato a una scuola di karate, ma a sua madre non piacevano tutti quei rituali e la filosofia zen, così, gli disse, o la boxe, come la gente normali, o niente. Lui si era voltato verso suo padre, che aveva annuito, con una punta di invidia per non averci mai pensato lui e aver sempre giocato a calcio come tutti gli altri.
Quando lui era bambino ogni tanto qualcuno si permetteva di far battute, correlando al pelo rosso presunte infedeltà coniugali, ma ogni volta suo padre scoppiava a ridere, e si metteva a raccontare di suo nonno, rosso di capelli e debole di cuore, lui sì, nato quando la sua bisnonna era scappata per un mese dal marito che la picchiava ed era tornata incinta di un marinaio irlandese.
John e io ci conoscemmo per caso. Pur avendo solo un anno di differenza non avevamo fatto la stessa scuola, e anche se facevamo la spesa allo stesso mercato, non ci eravamo mai incontrati.
Del giorno che lo vidi la prima volta ricordo tutto come fosse oggi. Avevo sedici anni, e frequentavo assiduamente i bar, dove, di nascosto da mia madre, buttavo giù le prime grappe e i primi bicchieri di vino con i pensionati del paese. Lui era seduto lì con una delle sue fidanzatine, il cui nonno era lì presente e li controllava mentre giocava a scopone. Gli altri vecchi ed io ridevamo di loro, di questo ragazzone rosso, che non poteva a stare da solo con la fidanzata, e che stava lì zitto a sorbire una Coca-Cola, mentre lei gli parlava. A un certo punto lui, che evidentemente non ne poteva più, venne a pagare al bancone. Allora, come credo anche ora, non sapeva muoversi in una stanza, e mi urtò, mandando il mio braccio contro il mio bicchiere di vino, che si versò completamente sul bancone. Non se ne accorse nemmeno, prese il resto e si avviò verso la porta.
Io, che avevo bevuto più che abbastanza, gli urlai dietro non so che cosa. Lui si voltò, incredulo, e fece un passo verso di me, che gonfio di rabbia come un coglione, gli andai incontro e lo afferrai per il collo del maglione. Nel bar scese il silenzio, tutti guardavano solo noi, convinti, che un paio di minuti dopo sarebbe servita l'ambulanza, o magari il becchino.
Lui mi prese la mano, la tolse dal suo collo, prese una bottiglia che stava sul bancone, la alzò e mi versò un altro bicchiere. Fece cenno che bevessi. Io, che avevo iniziato a sudare freddo, lo bevvi di un fiato. Allora lui mi mise una mano sulla spalla e uscì con me, mollando lì la fidanzata. Il resto del bar ci seguì, chi con gli occhi, chi coi piedi, attendendo che la regolasse fuori. Lui invece mi disse di camminare.
Andammo in giro per strada, io che mi facevo portare da lui, come al guinzaglio, e lui che non fiatava e mi diceva dove voltare. Arrivati davanti alla palestra mi chiese se volevo tirare di boxe.
Io arricciai il naso, mi interessava poco, e glielo dissi, lui propose allora che entrassi a vederlo. La palestra era vecchia e grande, con grandi luci sul soffitto, lui non salutò nessuno, si tolse la giacca e cominciò a tirare al sacco. Restai ammirato dal suo stile. Era possente, ma elegante, e sembrava che stesse combattendo contro qualche cosa di vivo, dal modo in cui si spostava e colpiva.
Rimasi per tutto l'allenamento, fino a che non spensero le luci. Quando uscimmo insieme dalla palestra, gli chiesi perché non mi avesse picchiato. Lui alzò le spalle e mi disse che era stato stupendo che io non avessi avuto paura. Gli ero sembrato un pazzo, ma un pazzo buono, con qualche speranza. Io arrossii. Non mi ero mai sentito tanto fortunato in vita mia.
Così cominciai a frequentarlo, ma quando mia madre lo seppe, si spaventò. A differenza di me, lei conosceva lui e la sua famiglia, e andava spesso a comprare la carne nella macelleria di suo padre. Per qualche istintiva ragione, non le piaceva che mi accompagnassi con quel ragazzo troppo cresciuto, e che, se tirava di boxe, era un violento di sicuro. Invano avevo cercato di spiegarle che era un ragazzo tranquillo, ma anche se mi fosse stata a sentire certo non poteva avere idea di quanto enorme fosse stato il salto di qualità, nella mia compagnia.
Per me, andavo a scuola sempre più raramente, la palestra fu un luogo dove imparare tutto. Tattica, colpi, idee, divenni un fissato della boxe, e un esperto, pur non avendo mai tirato. Gli allenatori, che per mesi mi avevano guardato fissare la preparazione in silenzio, videro in me uno di loro, quando mi sentirono un pomeriggio dare a John gli stessi consigli che gli avrebbero dato loro. Divenni il tuttofare e, per qualche mese, il terzo di John.
Lui si allenava tutti i giorni, anche di domenica, sempre seguito dal Santo. Il Santo era stato il fondatore della palestra vent'anni prima, ma per una questione di debiti di gioco, aveva dovuto venderla agli strozzini, che l'avevano girata a loro volta a un gruppo di trafficanti marocchini, che non sapendo cosa farsene l'avevano lasciata gestire al Santo, per cui poco era cambiato in sostanza. Il Santo in realtà si chiamava Kevin, ed era un inglese, un biondo con baffi d'altri tempi, piccolo di statura e animoso. I ragazzi che cominciavano a boxare gli facevano il verso, ma lui il rispetto se lo guadagnava combattendo con loro come se avesse avuto ancora sedici anni.
Con John andavano d'accordo facilmente. Il Santo parlava, a macchinetta, gesticolando, e John ascoltava annuendo. Ogni tanto John si mordeva la guancia, segno che non gli piaceva quello che Kevin diceva, ma stava zitto lo stesso. Il Santo aveva molto rispetto per John, e sapeva che un pugile così non gli sarebbe più ricapitato.
John intanto aveva scoperto che combattere gli piaceva. Si allenava, mangiava, beveva, cambiava una fidanzata al mese, senza mai tradirne una, ma tutto apparentemente solo per la boxe.
Ovviamente vinceva. Vinceva per ko, specie contro i più agili, che lo attaccavano senza sosta. Lui incassava, come aveva imparato alle elementari, e poi, quando tutti l'avrebbero dato perdente ai punti, stendeva l'avversario. Gli incontri locali erano sempre pieni di gente, anche perché la nostra squadra di calcio faceva schifo e tutti ci avevano sempre preso in giro. Grazie a John smisero.
Non amava discuterne. Preferiva parlare di calcio o di ragazze. Aveva una predilezione per quelle piccole di statura, che però avevano paura di lui, e finiva sempre con l'essere insoddisfatto delle vistose maggiorate a cui cedeva. In pubblico era sempre zitto, e esibiva rari sorrisi qua e là.
Quando attaccava a parlare di cose importanti, io lo stavo ad ascoltare attento, perchè mi sembrava incredibile che lui fosse mio amico, e pensavo che la sua amicizia me la dovessi guadagnare giorno per giorno, perché lui non si accorgesse della nullità che ero.
In paese tutti parlavano di lui. Era la gloria locale, il nostro punto più alto. Un gruppo di ragazzi dell'unica scuola superiore gli dedicarono una canzone.
Io ero il migliore amico di una canzone, di una gloria, ma di una fatta di carne ed ossa, che mangiava, beveva, pensava (credo di non aver mai conosciuto nessuno che pensasse tanto), e tirava di boxe.
Per un po' rimase con noi, tempo di qualche anno, poi i marocchini, come se fosse stato anche lui proprietà loro, se lo vennero a prendere. Il Santo protestò, sputò per terra, agitò le braccia, mostrò i pugni, disse che non glielo potevano fare. A un certo punto uno di quelli tirò fuori un coltello, e il Santo, come se non avesse sentito, si girò di spalle e continuò a sacramentare, ma se ne andò via.
Nessuno in paese si stupì, tutti sapevamo che il paese era troppo piccolo per John.
Quando fu l'ora, John venne sotto casa mia, accompagnato dalla Mercedes del suo nuovo manager. Io ero sulla soglia che lo aspettavo. Ci sedemmo sui gradini e parlammo a lungo, lui cercò in tutti i modi di convincermi ad andare con lui, parlò di guadagni e donne, ma io ero e sono un provinciale, le grandi città mi fanno venire il mal di testa, e lo smog la nausea. Sapevo di non aver scelta, con mia madre inginocchiata con il rosario in mano sul pavimento della sua camera da letto. Gli dissi che ero l'uomo di casa, e avevo avuto la mia dose di divertimento. Lui scosse la testa tante volte, poi mi mise una mano sulla spalla e sorrise senza dire niente. Io chiusi gli occhi forte per trattenere le lacrime e lasciai che risalisse in macchina.
Il giorno dopo andai in fabbrica a reclamare il posto che mi spettava da quando mio padre era morto sotto una pressa a caldo. Lentamente divenni popolare nel sindacato, e cercai di insegnare alla gente a battersi come avevo imparato in palestra. Allenai insieme al Santo fino a quando morì di cancro ai polmoni, poi i marocchini decisero di abbattere la palestra e di farci due campi di calcio a cinque.
John l'ho sempre seguito sui giornali, specie quando vinse il titolo nazionale un paio di anni dopo. So che si è ritirato a ventotto anni ha sposato una ballerina bulgara alta un metro e cinquanta e ci ha fatto due figlie, l'ha letto mia madre su una rivista scandalistica. I suoi hanno ancora la macelleria, e lui gli ha comprato una panetteria e un negozio di frutta e verdura, che le due sorelle gestiscono. Oggi vive in America e qui non è mai più tornato. Sarebbe ricevuto con tutti gli onori, e in paese tutti dicono che è un ingrato e uno sciocco. Quando parlano di lui io sputo per terra, come farebbe anche il Santo se fosse ancora vivo. Io penso che è proprio per gente come loro che lui non torna, lui che era partito perché era troppo grande per un posto, non era partito per tornare. Perché se hai combattuto per un villaggio intero, per sopravvivere ancora dovrai scrollartelo dalle spalle.
where is my town the place I love
where I can stay for all time
don't knock it down or build it up
this is my home for all time
St. Kevin taught me how
John the boxer is braver now
Phil the captain of the cause
fight you fight for what is yours
what is yours
[da The Highest High, traccia numero 1 dell'album Flaunt The Imperfection dei China Crisis, uscito nel gennaio 1985 su etichetta Virgin]
foto da flickr.com, utente Esther17, Everlast
scritto da Alberto Lioy tra il 10 e il 12 novembre 2012