Il computer puzzava da morire. Si era fritto tutta la polvere ormai, e gli restava solo più l'aria putrida. Chi l'aveva lasciato lì, non aveva intuito che a qualcuno forse sarebbe potuto non piacere lavorare lì sotto, e che trasportarlo di sopra sarebbe stata una fatica immane. Non solo per il peso, ma anche per i cavi e tutto il resto. Una cazzo di macchina puzzolente. Bianca mi guardava pigra dal suo divano di pelle graffiata, placidamente distesa sulla pancia, ogni tanto sbadigliava. L'unica cosa a cui serviva quella gatta era a limitare la mia ansia. Mi rilassava. Così mi alzavo e andavo da lei a farle pat pat sulla testa. Lei faceva le fusa come niente, e non si spostava mai, se non per mangiare. Se andasse in giro durante la notte, quando io cercavo di dormire, non lo so, perché mi chiudevo in camera. Adoro i gatti, ma non quando mi saltano sul cuscino.
Le finestre in alto erano appannate dal mio respiro, dal calore della stufa e del computer, e non mi lasciavano vedere fuori. La strada, qualche metro sopra di noi dava sul porto, e io lo dicevo a Bianca, ogni tanto, che avrebbe dovuto salire su una nave e diventare una gatta di mare e cacciare topi in cambio di pesce fresco, non quella merda in scatola che le davo io. Sono certo che capisse cosa intendevo, ma che non condividesse il mio pensiero.
Andando a dormire mi dicevo che per il giorno dopo avrei dovuto avere delle risposte, al posto di continuare a usare delle strategie oblique per saltare di qua e di là e non risolvere mai il problema. Mancava sempre qualcosa. Originalità, economicità, appeal. Tutto era un disastro. Quel lavoro mi avrebbe ucciso molto presto, avevo bisogno di un parere esterno, e non avevo nemmeno internet a disposizione. Già era un miracolo poter usare programmi di grafica sul quel cassone Windows.
Carlos mi chiamò da casa mentre mi lavavo i denti. Carlos mi chiamava per due motivi. Per chiedermi dove fosse la roba da mangiare o perché voleva pulire la casa. Mai che mi chiedesse come stavo, come andasse il lavoro, o che si sentisse in colpa per come trattava la casa. Bastardo. Intanto avevo indovinato ancora. Olive in salamoia.
“Cristo Carlos, è mezzanotte di giovedì sera, che cazzo te ne fai delle olive in salamoia?” Gli dissi dove stavano e riattaccai.
Mentre mi infilavo sotto le coperte, mi chiesi per l'ennesima volta quale fosse la realtà dei fatti. Un tantino complicato da spiegare. Ero nel regno di qualcun altro, non comandavo io e allo stesso tempo dovevo decidere su tutto, ma senza poter deludere. Una donna, ancora una volta una donna mi comandava. Quanto sarei stato felice di essere comandato da un uomo. Di poterci andare a bere una birra, parlare di calcio, di politica, magari gli sarebbe piaciuto il tennis. Si poteva andare a fare una partita e essere pratici. Fare le cose alla cazzo di cane, insomma.
Con una donna no, soprattutto con quella lì. Non potevo perché mi avrebbe rovinato. Mi avrebbe strappato il cuore e me l'avrebbe fatto a brandelli. Se ci fossi andato a letto quella sera, dal giorno dopo avrei assaggiato l'inferno in terra, sarei stato il suo cane, il suo lacché sadomaso, il suo servo etiope.
Quando me l'aveva proposto, mi ero messo a ridere. Era un progetto facile facile, basato su una zona che conoscevo, ci avevo lavorato anni prima. Sarebbe stato uno scherzetto sistemare tutto e stare nel budget. Lei mi aveva guardato, dandomi l'impressione che avessi una macchia di formaggio sui baffi, e mi aveva detto che la commessa era mia. Avrei solo dovuto presentare un progetto e avrei vinto io. Avevo riso, come l'imbecille che sono. Lei aveva sorriso appena, dietro il rossetto rosso e i denti perfetti. Io avevo seguitato a parlare, come l'uccellino in gabbia che gorgheggia tutto il dì, senza capire niente, perché ha il cervello troppo piccolo.
Ero andato a casa felice, senza nemmeno curarmi del casino che Carlos stava facendo con due ragazzine peruviane. Mi ero addormentato in trenta secondi netti, immaginando una spiaggia con le palme.
La mattina dopo il telefono aveva squillato alle sette. Avevo risposto in trance, senza riconoscere la voce. Lei aveva dato un tiro alla sigaretta e aveva lasciato un paio di secondi di silenzio, poi aveva detto che mi aspettava per cena in un ristorante che conoscevo di fama. Ora, per quanto io fossi addormentato, l'odore del pericolo mi arrivò dall'altra parte della cornetta. Dissi che avevo degli impegni, che sarei stato fuori città.
Lei rise, il riso sclerotico di qualcuno che non è ancora andato a dormire. Ebbi paura, e rabbrividii. Lei disse solo che voleva il progetto entro una settimana, che telefonassi alla sua segretaria per i dettagli. Altrimenti avrei passato un guaio. Io non emisi un sospiro e aspettai che lei riattaccasse. Lei riattaccò.
Andai da Marco alle dieci. Ordinai una birra, salsicce e uova fritte. L'ultimo pasto salutare che avrei fatto volevo godermelo tutto. Sara mi guardò dietro gli occhiali mentre ordinavo tutta quella roba. Anche se dentro faceva un freddo cane sudavo copiosamente. Non riuscivo a tener ferme le mani. Quando la roba arrivò, cercai di darmi un contegno e di mangiare lentamente, come se fossi stato in un film, in un documentario sulle abitudini alimentari degli organizzatori di eventi in preda al panico. “Ora osservate come il nostro alacre progettista solleva la forchetta per introdurre in bocca un pezzo di salsiccia grondante unto. Questo grasso lo sostenterà durante una lunga settimana di notti insonni, caffé nero e cibo in scatola andato a male.”
Marco venne a sedersi al mio tavolo appena passata l'ora di punta della colazione.
“Hai bisogno che ti presti dei soldi? In questo periodo ne ho.”
Io scossi la testa.
“Tua madre? La mandano via dal ricovero perché sta dando di testa?”
Mi accesi una sigaretta.
“Andiamo fuori dai, lo sai che qui non si può.”
Gli spiegai tutto in poche parole, mentre lui teneva gli occhi a terra. Tirò su la testa e mi guardò, lasciandomi nel dubbio che non avesse capito. Sparì dietro la porta per qualche secondo, mentre io ero lì in piedi, con le mani gelate che diventavano viola. Le stavo fissando, screpolate e ossute, e ebbi un sussulto quando lui ci mise sopra le chiavi.
“Dai una pulita sotto, non ci va nessuno da tre anni.”
“Ci credo, fa cagare.” dissi dietro un ghigno.
Lui rise e mi diede uno schiaffetto sulla guancia.
“Passo in settimana, a controllare sei sei ancora vivo?”
“Tranquillo, sono nel mio regno.”
Il giovedì sera dopo la telefonata di Carlos puntai la sveglia alle sei. Erano passati quattro giorni. Avevo sistemato tutte le luci, tutti i punti per i campioni gratuiti, quelli per gli stand del cibo, quelli per i venditori. Calcolato tutti i costi del personale, le hostess, i baristi che sarebbero passati coi bicchieri di vino caldo a un euro. Passavo e ripassavo tutti gli angoli, i punti di luce e di ombra che esaltassero lo spazio. Era tutto così perfetto, che ancora un po' mi commuovevo. Anche se il programma che avevo usato non era moderno né avanzato, avevo fatto un buon lavoro. Per questo andavo a letto al posto di passarci sopra la notte.
Quello di cui avevo bisogno era un'idea. Un'idea che la gente ci si potesse specchiare dentro e vedersi più bella, che fosse un sogno da condividere, una casa e un luogo comune, mia e tua, di tutti e di nessuno.
Una nave, un finto zoo, un grande bar d'altri tempi, un set cinematografico, un giro del mondo, una fabbrica, una scuola, un sito archeologico, un parco naturale, una spiaggia di lusso, un villaggio tradizionale, un bordello, un negozio di giocattoli, una pista di automobilismo, un campo militare, un fondo marino, una chiesa, un, un, un, un....
Niente. Niente andava bene. Era tutto pessimo, vuoto, poco originale. Non mi ci vedevo, in nessuna di quelle soluzioni, e non vedevo lei, che avrebbe dovuto essere la madrina, a presenziare per nessuna di quelle cose. Era una catastrofe. Ci sarei morto, senza un'idea. Avrei continuato a rendere la base sempre più bella, come se stessi allestendo un negozio, le vetrine, i manichini, le luci, i camerini, ma senza vestiti. Ah, no, niente vestiti, noi siamo per nudisti. La fiera desnuda, e io in galera, per aver cercato di corrompere la madrina del concorso. No, no, avrebbe detto che avevo cercato di violentarla. Forse avrebbe messo in mezzo sua figlia. Avrebbe detto che ero un nazista, facendo nascondere delle svastiche dentro casa mia per venti euro, Carlos avrebbe venduto sua madre per dieci, quindi sentivo di essere in una botte di ferro. Chiodata.
Sognai delle cose terribili. Una grande bocca mi mangiava per intero, con denti che più cattivi non avrei potuto immaginarli nemmeno da bambino. Poi qualcuno cercava di inserire un coltello nel mio orecchio e io perdevo liquidi dal lato della testa. Poi avevo un tic che mi faceva contrarre gli occhi, così che vedevo il mondo a frammenti.
Alle cinque, stufo come pochi, mi alzai per andare in bagno e poi scesi per la scala umida. Tanto valeva lavorare, per dormire in quel modo. Avessi almeno avuto dei porno, invece niente. La gatta non si era nemmeno degnata di svegliarsi. Forse aveva aperto un occhio e si era detta, non ne vale la pena. Cercai di scaldare un po' l'ambiente. Adoro l'odore della muffa calda la mattina presto. Almeno mi rovinavo l'appetito, così da non dover anche preoccuparmi di mangiare.
Senza preavviso, Marco arrivò alle dieci e un quarto, mentre curavo le luci del soffitto del padiglione A con un disegno a stella da fare invidia ai massoni.
“Il bar è bruciato?”
“No, abbiamo programmato la cosa tra un'ora. Ho lasciato a Sara il kerosene e il numero dell'assicurazione.”
Si accese una sigaretta e salutò la mia gatta, che gli fece delle fusa esagerate. Io intanto andai avanti con il mio disegno assurdo.
“Ma perché tuo zio ha comprato questa casa?”
“Sua moglie, le garbava una casa al mare.” bofonchiò lui.
“Questo non è il mare, è un porto di merda.”
Lui rise.
“Bianca, glielo devi dire pure tu, questo è un enigmatico luogo di mare, è affascinante.”
“Si, inscatolano il tonno qui. Se lei lo sapesse col cavolo che resta con me.” replicai io.
Dopo un dieci minuti, sentii il fruscio di un sacchetto di plastica alle mie spalle.
“Che cosa hai portato, animale?” chiesi, senza voltarmi.
“Io? Niente che ti possa interessare.”
Un minuto dopo mi passò dietro le spalle e io afferrai la bottiglia dal fondo. Single malt. Aveva capito che la situazione era critica. Ruppi il sigillo e mi attaccai finché non mi ebbe scaldato lo stomaco.
All'una e mezza eravamo svaccati alla trattoria locale, a ordinare pasta e carne. Ridevamo come due ritardati, ma tanto i proprietari ci conoscevano. Marco ci aveva lavorato da cameriere, dieci anni prima. La pasta pasticciata della signora era da sempre uno spettacolo e il vino una merda. Ma non aveva importanza, dato che la bottiglia di whiskey era finita da un'ora. Parlammo di donne che avevamo avuto e lasciato andare, di vacanze di dieci anni prima, di calcio e di alcolici di qualità. Lasciavamo andare, come se non avessimo avuto niente da fare, come se lui non gestisse una tavola calda e io non avessi avuto un progetto da finire. Lodammo il cibo e facemmo complimenti sull'età della signora che sembrava sempre la stessa. Lei arrossì, e io sentii nostalgia per anni in cui arrossivo anche io quando qualcuno mi faceva un complimento. Adesso avevano semplicemente smesso. Una volta spazzolato tutto il cibo e lasciato a metà il litro di vino, ci accendemmo una sigaretta, anche se sarebbe stato vietato.
“Allora, che cos'è questo lavoro che stai facendo e che ti ha spinto a venire in questo posto dimenticato da dio.”
“Lavoro per la gloria imperitura!” dissi io, sbronzo.
“In questo segno vincerai.” replicò lui, mimando un gesto osceno.
“Di sicuro, se finisco in galera avrò tanti amici amorevoli.”
“Addirittura, e come fai a finire in galera? Stai progettando un parco giochi per pedofili?”
“Ma magari, almeno sarebbe semplice! Qui quella mi ammazza.”
“Una donna? Ti comanda una donna?”
“Sì.”
“No, caro mio, qui bisogna trovare un'idea.”
“Grazie al cazzo, è cinque giorni che cerco un'idea, ho tutto, ho il progetto, le luci, gli spazi. Mi manca una cazzo di idea.”
Alzai la mano e chiesi che portassero una grappa. La signora mi vide e mi sorrise con un gesto di finto rimprovero. A volte non capisco come, ma la gente della generazione dei miei genitori mi immagina sempre come un bambino anche se bevo fumo e bestemmio. Pazienza.
Buttando fuori il fumo dal naso Marco bofonchiò
“Allora, cosa ti serve?”
“Un tema.” risposi io, e gli snocciolai il mio elenco di idee, a cui aggiunsi per completezza, un campo di concentramento giapponese, un manicomio, e un salone delle torture.
“Cazzo, ma non sei mai contento! Scegline una e via, poi la rendi originale strada facendo. Vanno tutte benissimo, specialmente il manicomio. Nella sala dell'elettroshock puoi far servire i cocktail.”
“Vanno bene un cazzo, quella mi fa fuori.”
“Ma chi è quella lì.”
“La regina di Saba.”
“Veramente?” chiese lui, mentre ci portavano le grappe al tavolo.
“Lo sembra quantomeno.”
“Una scopata regale.”
Risi, come uno scemo.
“Cioé...é davvero così incredibile questa donna? Descrivila un po'.”
“Ha la nostra età, ma sembra una di dieci anni più vecchia che dimostra la nostra età.”
“La regina di Saba.” ripeté lui.
“E io sono suo suddito. Umile e prostrato ai suoi piedi.”
“Vacci piano, non ti ci vedo nel sadomaso.”
Io scossi la testa.
“Intrappolato nel suo regno.”
“Già.” fece lui, iniziando a spulciarsi la bocca con uno stuzzicadenti.
Io accesi un'altra sigaretta e mi passai una mano tra i capelli, accarezzando la stempiatura. Per qualche secondo non mi accorsi che lui mi guardava. Mi stava fissando come se avesse visto un fantasma.
“Ho qualcosa in faccia?” chiesi, spaventato.
“No, cos'hai detto?”
“Niente, ti ho chiesto se ho qualcosa in faccia. Smettila, mi fai paura.”
“No, no, cazzone, cos'hai detto prima?”
“Prima quando?”
“Prima di accenderti la sigaretta.”
“Non ricordo.”
“Hai detto che ti ha intrappolato, la regina.”
“Sì. Ho detto che sono intrappolato nel suo regno.”
“Voilà.” disse lui.
“Cosa?” chiesi io.
“Lei è una regina? Be', le prepari un regno con cavalieri e fanti, con tanto di castello.”
Io scoppiai a ridere. Era un'idea abusata come le altre, ma a quel punto cosa cambiava? In ogni caso se avesse voluto essere contenta lo poteva essere a prescindere, io ero un buon progettista. Oggi non più, ho cambiato mestiere. Ad ogni modo, guardai Marco, che mi sorrideva beffardo, scossi la testa, una volta, due volte, poi mi alzai e andai a pagare il conto.
wrapped in the basement,
oh ruler I need some answers,
I don't know how we fly the freedom bird in the pixels.
oh ruler I make no difference
I've got no power in your kingdom.
your wisdom,
your rule, your kingdom,
trapped inside her.
show me some reason
I'll wake up, I'll need some answers.
silent curtain
show me some reason.
[da Kingdom, traccia numero 5 dell'album Businessmen and Ghosts dei Working for a nuclear free city, uscito nel settembre 2007 su etichetta Deaf Dumb & Blind]
foto da flickr.com, utente steviep187, knights of malta
scritto da Alberto Lioy tra il 15 e il 18 dicembre 2012
Le finestre in alto erano appannate dal mio respiro, dal calore della stufa e del computer, e non mi lasciavano vedere fuori. La strada, qualche metro sopra di noi dava sul porto, e io lo dicevo a Bianca, ogni tanto, che avrebbe dovuto salire su una nave e diventare una gatta di mare e cacciare topi in cambio di pesce fresco, non quella merda in scatola che le davo io. Sono certo che capisse cosa intendevo, ma che non condividesse il mio pensiero.
Andando a dormire mi dicevo che per il giorno dopo avrei dovuto avere delle risposte, al posto di continuare a usare delle strategie oblique per saltare di qua e di là e non risolvere mai il problema. Mancava sempre qualcosa. Originalità, economicità, appeal. Tutto era un disastro. Quel lavoro mi avrebbe ucciso molto presto, avevo bisogno di un parere esterno, e non avevo nemmeno internet a disposizione. Già era un miracolo poter usare programmi di grafica sul quel cassone Windows.
Carlos mi chiamò da casa mentre mi lavavo i denti. Carlos mi chiamava per due motivi. Per chiedermi dove fosse la roba da mangiare o perché voleva pulire la casa. Mai che mi chiedesse come stavo, come andasse il lavoro, o che si sentisse in colpa per come trattava la casa. Bastardo. Intanto avevo indovinato ancora. Olive in salamoia.
“Cristo Carlos, è mezzanotte di giovedì sera, che cazzo te ne fai delle olive in salamoia?” Gli dissi dove stavano e riattaccai.
Mentre mi infilavo sotto le coperte, mi chiesi per l'ennesima volta quale fosse la realtà dei fatti. Un tantino complicato da spiegare. Ero nel regno di qualcun altro, non comandavo io e allo stesso tempo dovevo decidere su tutto, ma senza poter deludere. Una donna, ancora una volta una donna mi comandava. Quanto sarei stato felice di essere comandato da un uomo. Di poterci andare a bere una birra, parlare di calcio, di politica, magari gli sarebbe piaciuto il tennis. Si poteva andare a fare una partita e essere pratici. Fare le cose alla cazzo di cane, insomma.
Con una donna no, soprattutto con quella lì. Non potevo perché mi avrebbe rovinato. Mi avrebbe strappato il cuore e me l'avrebbe fatto a brandelli. Se ci fossi andato a letto quella sera, dal giorno dopo avrei assaggiato l'inferno in terra, sarei stato il suo cane, il suo lacché sadomaso, il suo servo etiope.
Quando me l'aveva proposto, mi ero messo a ridere. Era un progetto facile facile, basato su una zona che conoscevo, ci avevo lavorato anni prima. Sarebbe stato uno scherzetto sistemare tutto e stare nel budget. Lei mi aveva guardato, dandomi l'impressione che avessi una macchia di formaggio sui baffi, e mi aveva detto che la commessa era mia. Avrei solo dovuto presentare un progetto e avrei vinto io. Avevo riso, come l'imbecille che sono. Lei aveva sorriso appena, dietro il rossetto rosso e i denti perfetti. Io avevo seguitato a parlare, come l'uccellino in gabbia che gorgheggia tutto il dì, senza capire niente, perché ha il cervello troppo piccolo.
Ero andato a casa felice, senza nemmeno curarmi del casino che Carlos stava facendo con due ragazzine peruviane. Mi ero addormentato in trenta secondi netti, immaginando una spiaggia con le palme.
La mattina dopo il telefono aveva squillato alle sette. Avevo risposto in trance, senza riconoscere la voce. Lei aveva dato un tiro alla sigaretta e aveva lasciato un paio di secondi di silenzio, poi aveva detto che mi aspettava per cena in un ristorante che conoscevo di fama. Ora, per quanto io fossi addormentato, l'odore del pericolo mi arrivò dall'altra parte della cornetta. Dissi che avevo degli impegni, che sarei stato fuori città.
Lei rise, il riso sclerotico di qualcuno che non è ancora andato a dormire. Ebbi paura, e rabbrividii. Lei disse solo che voleva il progetto entro una settimana, che telefonassi alla sua segretaria per i dettagli. Altrimenti avrei passato un guaio. Io non emisi un sospiro e aspettai che lei riattaccasse. Lei riattaccò.
Andai da Marco alle dieci. Ordinai una birra, salsicce e uova fritte. L'ultimo pasto salutare che avrei fatto volevo godermelo tutto. Sara mi guardò dietro gli occhiali mentre ordinavo tutta quella roba. Anche se dentro faceva un freddo cane sudavo copiosamente. Non riuscivo a tener ferme le mani. Quando la roba arrivò, cercai di darmi un contegno e di mangiare lentamente, come se fossi stato in un film, in un documentario sulle abitudini alimentari degli organizzatori di eventi in preda al panico. “Ora osservate come il nostro alacre progettista solleva la forchetta per introdurre in bocca un pezzo di salsiccia grondante unto. Questo grasso lo sostenterà durante una lunga settimana di notti insonni, caffé nero e cibo in scatola andato a male.”
Marco venne a sedersi al mio tavolo appena passata l'ora di punta della colazione.
“Hai bisogno che ti presti dei soldi? In questo periodo ne ho.”
Io scossi la testa.
“Tua madre? La mandano via dal ricovero perché sta dando di testa?”
Mi accesi una sigaretta.
“Andiamo fuori dai, lo sai che qui non si può.”
Gli spiegai tutto in poche parole, mentre lui teneva gli occhi a terra. Tirò su la testa e mi guardò, lasciandomi nel dubbio che non avesse capito. Sparì dietro la porta per qualche secondo, mentre io ero lì in piedi, con le mani gelate che diventavano viola. Le stavo fissando, screpolate e ossute, e ebbi un sussulto quando lui ci mise sopra le chiavi.
“Dai una pulita sotto, non ci va nessuno da tre anni.”
“Ci credo, fa cagare.” dissi dietro un ghigno.
Lui rise e mi diede uno schiaffetto sulla guancia.
“Passo in settimana, a controllare sei sei ancora vivo?”
“Tranquillo, sono nel mio regno.”
Il giovedì sera dopo la telefonata di Carlos puntai la sveglia alle sei. Erano passati quattro giorni. Avevo sistemato tutte le luci, tutti i punti per i campioni gratuiti, quelli per gli stand del cibo, quelli per i venditori. Calcolato tutti i costi del personale, le hostess, i baristi che sarebbero passati coi bicchieri di vino caldo a un euro. Passavo e ripassavo tutti gli angoli, i punti di luce e di ombra che esaltassero lo spazio. Era tutto così perfetto, che ancora un po' mi commuovevo. Anche se il programma che avevo usato non era moderno né avanzato, avevo fatto un buon lavoro. Per questo andavo a letto al posto di passarci sopra la notte.
Quello di cui avevo bisogno era un'idea. Un'idea che la gente ci si potesse specchiare dentro e vedersi più bella, che fosse un sogno da condividere, una casa e un luogo comune, mia e tua, di tutti e di nessuno.
Una nave, un finto zoo, un grande bar d'altri tempi, un set cinematografico, un giro del mondo, una fabbrica, una scuola, un sito archeologico, un parco naturale, una spiaggia di lusso, un villaggio tradizionale, un bordello, un negozio di giocattoli, una pista di automobilismo, un campo militare, un fondo marino, una chiesa, un, un, un, un....
Niente. Niente andava bene. Era tutto pessimo, vuoto, poco originale. Non mi ci vedevo, in nessuna di quelle soluzioni, e non vedevo lei, che avrebbe dovuto essere la madrina, a presenziare per nessuna di quelle cose. Era una catastrofe. Ci sarei morto, senza un'idea. Avrei continuato a rendere la base sempre più bella, come se stessi allestendo un negozio, le vetrine, i manichini, le luci, i camerini, ma senza vestiti. Ah, no, niente vestiti, noi siamo per nudisti. La fiera desnuda, e io in galera, per aver cercato di corrompere la madrina del concorso. No, no, avrebbe detto che avevo cercato di violentarla. Forse avrebbe messo in mezzo sua figlia. Avrebbe detto che ero un nazista, facendo nascondere delle svastiche dentro casa mia per venti euro, Carlos avrebbe venduto sua madre per dieci, quindi sentivo di essere in una botte di ferro. Chiodata.
Sognai delle cose terribili. Una grande bocca mi mangiava per intero, con denti che più cattivi non avrei potuto immaginarli nemmeno da bambino. Poi qualcuno cercava di inserire un coltello nel mio orecchio e io perdevo liquidi dal lato della testa. Poi avevo un tic che mi faceva contrarre gli occhi, così che vedevo il mondo a frammenti.
Alle cinque, stufo come pochi, mi alzai per andare in bagno e poi scesi per la scala umida. Tanto valeva lavorare, per dormire in quel modo. Avessi almeno avuto dei porno, invece niente. La gatta non si era nemmeno degnata di svegliarsi. Forse aveva aperto un occhio e si era detta, non ne vale la pena. Cercai di scaldare un po' l'ambiente. Adoro l'odore della muffa calda la mattina presto. Almeno mi rovinavo l'appetito, così da non dover anche preoccuparmi di mangiare.
Senza preavviso, Marco arrivò alle dieci e un quarto, mentre curavo le luci del soffitto del padiglione A con un disegno a stella da fare invidia ai massoni.
“Il bar è bruciato?”
“No, abbiamo programmato la cosa tra un'ora. Ho lasciato a Sara il kerosene e il numero dell'assicurazione.”
Si accese una sigaretta e salutò la mia gatta, che gli fece delle fusa esagerate. Io intanto andai avanti con il mio disegno assurdo.
“Ma perché tuo zio ha comprato questa casa?”
“Sua moglie, le garbava una casa al mare.” bofonchiò lui.
“Questo non è il mare, è un porto di merda.”
Lui rise.
“Bianca, glielo devi dire pure tu, questo è un enigmatico luogo di mare, è affascinante.”
“Si, inscatolano il tonno qui. Se lei lo sapesse col cavolo che resta con me.” replicai io.
Dopo un dieci minuti, sentii il fruscio di un sacchetto di plastica alle mie spalle.
“Che cosa hai portato, animale?” chiesi, senza voltarmi.
“Io? Niente che ti possa interessare.”
Un minuto dopo mi passò dietro le spalle e io afferrai la bottiglia dal fondo. Single malt. Aveva capito che la situazione era critica. Ruppi il sigillo e mi attaccai finché non mi ebbe scaldato lo stomaco.
All'una e mezza eravamo svaccati alla trattoria locale, a ordinare pasta e carne. Ridevamo come due ritardati, ma tanto i proprietari ci conoscevano. Marco ci aveva lavorato da cameriere, dieci anni prima. La pasta pasticciata della signora era da sempre uno spettacolo e il vino una merda. Ma non aveva importanza, dato che la bottiglia di whiskey era finita da un'ora. Parlammo di donne che avevamo avuto e lasciato andare, di vacanze di dieci anni prima, di calcio e di alcolici di qualità. Lasciavamo andare, come se non avessimo avuto niente da fare, come se lui non gestisse una tavola calda e io non avessi avuto un progetto da finire. Lodammo il cibo e facemmo complimenti sull'età della signora che sembrava sempre la stessa. Lei arrossì, e io sentii nostalgia per anni in cui arrossivo anche io quando qualcuno mi faceva un complimento. Adesso avevano semplicemente smesso. Una volta spazzolato tutto il cibo e lasciato a metà il litro di vino, ci accendemmo una sigaretta, anche se sarebbe stato vietato.
“Allora, che cos'è questo lavoro che stai facendo e che ti ha spinto a venire in questo posto dimenticato da dio.”
“Lavoro per la gloria imperitura!” dissi io, sbronzo.
“In questo segno vincerai.” replicò lui, mimando un gesto osceno.
“Di sicuro, se finisco in galera avrò tanti amici amorevoli.”
“Addirittura, e come fai a finire in galera? Stai progettando un parco giochi per pedofili?”
“Ma magari, almeno sarebbe semplice! Qui quella mi ammazza.”
“Una donna? Ti comanda una donna?”
“Sì.”
“No, caro mio, qui bisogna trovare un'idea.”
“Grazie al cazzo, è cinque giorni che cerco un'idea, ho tutto, ho il progetto, le luci, gli spazi. Mi manca una cazzo di idea.”
Alzai la mano e chiesi che portassero una grappa. La signora mi vide e mi sorrise con un gesto di finto rimprovero. A volte non capisco come, ma la gente della generazione dei miei genitori mi immagina sempre come un bambino anche se bevo fumo e bestemmio. Pazienza.
Buttando fuori il fumo dal naso Marco bofonchiò
“Allora, cosa ti serve?”
“Un tema.” risposi io, e gli snocciolai il mio elenco di idee, a cui aggiunsi per completezza, un campo di concentramento giapponese, un manicomio, e un salone delle torture.
“Cazzo, ma non sei mai contento! Scegline una e via, poi la rendi originale strada facendo. Vanno tutte benissimo, specialmente il manicomio. Nella sala dell'elettroshock puoi far servire i cocktail.”
“Vanno bene un cazzo, quella mi fa fuori.”
“Ma chi è quella lì.”
“La regina di Saba.”
“Veramente?” chiese lui, mentre ci portavano le grappe al tavolo.
“Lo sembra quantomeno.”
“Una scopata regale.”
Risi, come uno scemo.
“Cioé...é davvero così incredibile questa donna? Descrivila un po'.”
“Ha la nostra età, ma sembra una di dieci anni più vecchia che dimostra la nostra età.”
“La regina di Saba.” ripeté lui.
“E io sono suo suddito. Umile e prostrato ai suoi piedi.”
“Vacci piano, non ti ci vedo nel sadomaso.”
Io scossi la testa.
“Intrappolato nel suo regno.”
“Già.” fece lui, iniziando a spulciarsi la bocca con uno stuzzicadenti.
Io accesi un'altra sigaretta e mi passai una mano tra i capelli, accarezzando la stempiatura. Per qualche secondo non mi accorsi che lui mi guardava. Mi stava fissando come se avesse visto un fantasma.
“Ho qualcosa in faccia?” chiesi, spaventato.
“No, cos'hai detto?”
“Niente, ti ho chiesto se ho qualcosa in faccia. Smettila, mi fai paura.”
“No, no, cazzone, cos'hai detto prima?”
“Prima quando?”
“Prima di accenderti la sigaretta.”
“Non ricordo.”
“Hai detto che ti ha intrappolato, la regina.”
“Sì. Ho detto che sono intrappolato nel suo regno.”
“Voilà.” disse lui.
“Cosa?” chiesi io.
“Lei è una regina? Be', le prepari un regno con cavalieri e fanti, con tanto di castello.”
Io scoppiai a ridere. Era un'idea abusata come le altre, ma a quel punto cosa cambiava? In ogni caso se avesse voluto essere contenta lo poteva essere a prescindere, io ero un buon progettista. Oggi non più, ho cambiato mestiere. Ad ogni modo, guardai Marco, che mi sorrideva beffardo, scossi la testa, una volta, due volte, poi mi alzai e andai a pagare il conto.
wrapped in the basement,
oh ruler I need some answers,
I don't know how we fly the freedom bird in the pixels.
oh ruler I make no difference
I've got no power in your kingdom.
your wisdom,
your rule, your kingdom,
trapped inside her.
show me some reason
I'll wake up, I'll need some answers.
silent curtain
show me some reason.
[da Kingdom, traccia numero 5 dell'album Businessmen and Ghosts dei Working for a nuclear free city, uscito nel settembre 2007 su etichetta Deaf Dumb & Blind]
foto da flickr.com, utente steviep187, knights of malta
scritto da Alberto Lioy tra il 15 e il 18 dicembre 2012