Alle otto del mattino la sveglia suona.
Ugo muove un braccio. Cadono dal comodino delle penne, un libro. Lui tasta ancora mentre la sveglia suona. La lampada fa mezzo giro su se stessa e si corica sul comodino.
Ugo apre gli occhi. Un bruciore insostenibile glieli fa chiudere. Chiama, a gran voce
“Mamma!”
Nessuno risponde.
Si alza di scatto e tira una botta alla sveglia sulla scrivania.
Gli gira la testa, tutto intorno si fa buio e lui d'istinto siede sul letto. Mentre si riprende cerca di pensare.
Prende il telefonino, ha dimenticato di spegnerlo. Guarda la data, è domenica. Lui è a torso nudo, in jeans, madido di sudore.
Avrebbe dovuto dormire. Cosa fa sveglio alle otto? C'è un'errore, è tutto un errore. I suoi dove sono? Cerca di ricordare qualcosa.
Dov'era la sera prima? Che cosa ha fatto? Di chi era la festa? Chi l'ha portato a casa? Non ricorda niente.
Il citofono suona, all'improvviso. Decide che non è per lui. Se qualcuno lo cerca lo chiama al cellulare.
Si sdraia sul letto. Mette una mano in tasca e prende il portafogli. Il citofono suona ancora.
Apre il portafogli. C'è un biglietto da cinque dove pensava che ce ne fosse uno da cinquanta, e niente scontrini. Si ricordasse almeno qualcosa. Mette una mano nell'altra tasca, tira fuori un bigliettino. Legge due parole in inglese “Melody day”. Sabato sera, il concorso.
Come è finito ubriaco in quel modo? Ha cantato? Gli sembra di ricordare di sì, ma forse era solo un sogno, non saprebbe dire.
Sente dei colpi alla porta.
“Ugo! Che fai? Muoviti, dobbiamo andare, dobbiamo ancora prendere anche Rita.”
La voce da fuori gli è familiare, si concentra. Suo cugino Enrico. Cosa ci fa lì fuori suo cugino Enrico? Si vedono solo a Natale.
“Ugo! Ma ci sei?”
Ugo rapidamente tira su le imposte e apre la finestra. Sotto di lui, suo cugino, lo guarda perplesso da dietro gli occhiali da sole.
“Buongiorno!” gli urla “Allora, scendi?”
A Ugo gira la testa, si regge al davanzale per non cadere. Fa un lungo respiro e dice
“Sono ubriaco.”
Suo cugino non lo sente, ma gli grida.
“Fammi entrare dai, che mi faccio un panino mentre ti prepari.”
Un quarto d'ora dopo sale in macchina di Enrico.
La macchina profuma di Arbre Magique e gli dà fastidio. Ma tace, perché suo cugino l'ha appena lavato e vestito ed è incazzato con lui come una bestia.
Stanno andando al funerale di sua zia. Questo è quanto. Lui si ricorda si sua zia, ma non la sopportava. In ogni caso sarà un massacro. Tutti i parenti in giostra a far vedere chi è più addolorato, chi è più incazzato. Non va bene, non va bene per niente.
Sua cugina Rita gli sorride da dietro l'apparecchio. Ha quindici anni e sta venendo su un cesso catastrofico come sua madre. Insposabile, inscopabile, pensa quando la vede. Ugo cerca di sorriderle almeno con gli occhi, ma sta solo cercando di tenere il mondo fermo. Non si è nemmeno messo sul sedile davanti e ci manda adesso Rita per potersi sdraiare. Sente le risate di sua cugina quando Enrico le spiega. Stronzi. Tutti quanti.
Non va bene per niente, tutto quanto. Probabilmente avrebbe più senso gettarsi dall'auto in corsa e mettersi a dormire tra i campi.
Il paese dove devono andare è abbastanza lontano, e se ne rallegra. Meglio stare sdraiato in auto che in piedi ovunque.
Suo cugino decide di infierire e fa partire la musica. Un'imbarazzante compilation italiana tipo Omar Pedrini, Negrita e Tiziano Ferro. Allegria.
Il problema non è tanto la musica, quanto le parole. Quanta banalità, meglio quello che scrive lui. Il giorno che riesce a farsi sentire da un discografico farà fortuna, è quello che pensa sempre.
Sua cugina da davanti chiede se vuole un succo di frutta. Disgusto e raccapriccio, ma potrebbe aiutarlo per la sbronza. Si tira su e afferra l'ace. Lo trangugia come se non bevesse dal duemilasei. Stavolta ride anche Enrico
“Cazzo, sei messo proprio male se ti bevi l'ace...”
Gli verrebbe da dirgli di stare zitto, ma lascia perdere.
È ancora talmente ubriaco da avere ancora dei lunghi momenti di vuoto.
“a-ah-ah a-ah amore fragile” viene dalla radio. Lui si mette le mani davanti alle orecchie per non sentire.
“Come potrebbe andare peggio di così?” è il pensiero che ha scendendo dalla macchina. Avvicinandosi al cimitero vede tutti i parenti riuniti e cerca di darsi un tono, una compostezza. Il vestito che ha è tutto stropicciato, e già nota lo sguardo di odio di sua madre.
Saluta tutti, con poche parole e sorrisi strascicati. È colpa loro in fondo. Se anche lui avesse dovuto far parte della veglia, da cui quelli della sua generazione sono esentati, sarebbe con loro, e sobrio.
Suo nonno lo prende sottobraccio e se lo porta via a fumare una sigaretta. Gli parla, gli racconta cose di sua zia, che era la cognata. Ma Ugo non ha fermezza, non ha pazienza. La sigaretta gli cade, due volte, ma il nonno è gentile, non ci fa caso. Lui per un momento “magari tutti fossero così”, ma neanche del nonno gliene frega molto. Ha avuto un negozio di frutta e verdura per tutta la vita, che palle. Ugo lo guarda come se fosse sordo, senza sentire le sue parole.
Questo finchè, il nonno non gli chiede.
“Ma non è la tua ragazza quella?”
Ecco. Non era tanto complicato.
“No, nonno, è la sua ragazza.” dice, indicando il tipo pelato che le viene dietro.
Lei è rossa in viso, sta male, ha probabilmente pianto. Lui è incazzato come un puma a vederlo, e ha tatuato un serpente sul collo. Tamarro.
Suo nonno continua
“Ah, non state più insieme.”
“No, ma siamo andati a letto insieme ieri sera, credo.” replica Ugo.
Il nonno sorride, quel modo di parlare diretto non gli piace, ma ormai si è abituato, pensa Ugo.
“E il suo fidanzato lo sa?” chiede il nonno, ridendo piano.
Ugo non risponde più. Probabilmente lo sa e se lo vede lo ammazza.
“Nonno, mi lasci un'altra sigaretta?”
“Ti lascio il pacchetto, io è meglio se non fumo.”
“Grazie nonno, ci vediamo dopo.”
Un'esperienza interessante, da raccontare. Ecco, forse non da raccontare, mentre si volta e rutta fortissimo. Ha rimesso l'anima in un fosso, e ora è vuoto come non mai.
Ha fame e nausea allo stesso tempo, ma di lì non lo schioda nessuno. Piano piano ricostruisce tutta la sera prima.
Gli sembra di aver vinto il concorso. Solo che non lo sa nessuno perché lui se n'era dimenticato. Qualcuno ha apprezzato la sua performance. Qualcun altra l'ha apprezzata talmente tanto da premiarlo in natura. Gli viene da ridere, anche se non c'è molto da ridere a stare sdraiato nel buco di una tomba. Sua madre sarà furente, ma non è che possono mettersi a cercarlo per tutto il cimitero proprio ora che c'è da interrare sua zia. Sarebbe poco rispettoso.
Sente qualcosa cadergli addosso. Guarda in alto il cielo grigio e capisce che comincia a piovere. Che sfiga. Il suo vestito è già pieno di terra. Con il fango sarà quasi perfetto. Ma non gli importa. Il vestito fa niente, tutto fa niente. Solo l'idea di aver fatto una follia la sera prima importa.
Cambiare tutto quanto, vedere gente nuova, essere capito per quello che è, non per quello che la sua famiglia vuole. Se ha vinto il concorso, forse se ne può andare.
Intanto la pioggia gli bagna il viso e lo fa sentire meglio. Accende una sigaretta, e in qualche modo riesce a fumare. Non piove troppo. La buca è poco profonda ma la pace è enorme. Desidera di essere anche lui un morto? Forse sì. Tanti problemi che troverebbero una soluzione semplice e pulita, ma il suicidio non è il suo stile. Meglio affidarsi al fato, magari una macchina lo metterà sotto il giorno giusto.
Pensa se toccasse a lui ricevere una zappata di terra in faccia. Manca la cassa, manca tutto. Non si può fare. Eppure quell'immobilità da dopo sbronza gli si confà. È un passaggio obbligato per l'alcolismo, si dice. Prima o poi uno comincia a godersi anche i dopo sbronza. Quelli non troppo dolorosi.
Poi apre gli occhi e guarda sopra di sé. Sono tutti lì, che lo guardano. Chi ride, come sua cugina, chi è perplesso. Sua madre gli parla.
“Va bene che hai perso la gara, Ugo, ma tirati su di lì.”
Lui dice
“Ma no, la gara l'ho vinta, mamma.”
Lei scuote la testa.
“Ugo, mi hai fatto preoccupare così tanto.” dice la sua ex.
“Carlotta, mi dispiace.”
“Non ti avevo mai visto bere così tanto, va be' che avevi perso, ma non era il caso.”
“Ringrazia che t'ho portato a casa” ringhia Loris, il suo fidanzato.
Il nonno lo guarda e gli dice
“Tirati su di lì.” con un gesto eloquente degli occhi.
Possibile che si sia sognato tutto? Possibile che stia sognando ora? Chiude gli occhi per qualche secondo e poi li riapre. Sono ancora tutti lì.
Qualcuno va via, come suo padre, suo nonno gli sorride ancora. Sua madre piange. La sua ex e Loris se ne vanno.
Ugo punta i gomiti e si mette a sedere. Non ha vinto, non cambia niente, è tutto come al solito, con una figura di merda in più che racconteranno su di lui. Raccoglie la giacca e si alza. È proprio ora di andare, ora che il funerale è finito.
melody day where have you gone
all the hope I had has gone away
and what we had has come undone
[da Melody Day, traccia numero 1 dell'album Andorra di Caribou, uscito nell'agosto 2007 su etichetta Merge]
foto da flickr.com, utente Ondablv, Sguardo sfuggente al destino inevitabile
scritto da Alberto Lioy, tra il 21 e il 30 ottobre 2012
Ugo muove un braccio. Cadono dal comodino delle penne, un libro. Lui tasta ancora mentre la sveglia suona. La lampada fa mezzo giro su se stessa e si corica sul comodino.
Ugo apre gli occhi. Un bruciore insostenibile glieli fa chiudere. Chiama, a gran voce
“Mamma!”
Nessuno risponde.
Si alza di scatto e tira una botta alla sveglia sulla scrivania.
Gli gira la testa, tutto intorno si fa buio e lui d'istinto siede sul letto. Mentre si riprende cerca di pensare.
Prende il telefonino, ha dimenticato di spegnerlo. Guarda la data, è domenica. Lui è a torso nudo, in jeans, madido di sudore.
Avrebbe dovuto dormire. Cosa fa sveglio alle otto? C'è un'errore, è tutto un errore. I suoi dove sono? Cerca di ricordare qualcosa.
Dov'era la sera prima? Che cosa ha fatto? Di chi era la festa? Chi l'ha portato a casa? Non ricorda niente.
Il citofono suona, all'improvviso. Decide che non è per lui. Se qualcuno lo cerca lo chiama al cellulare.
Si sdraia sul letto. Mette una mano in tasca e prende il portafogli. Il citofono suona ancora.
Apre il portafogli. C'è un biglietto da cinque dove pensava che ce ne fosse uno da cinquanta, e niente scontrini. Si ricordasse almeno qualcosa. Mette una mano nell'altra tasca, tira fuori un bigliettino. Legge due parole in inglese “Melody day”. Sabato sera, il concorso.
Come è finito ubriaco in quel modo? Ha cantato? Gli sembra di ricordare di sì, ma forse era solo un sogno, non saprebbe dire.
Sente dei colpi alla porta.
“Ugo! Che fai? Muoviti, dobbiamo andare, dobbiamo ancora prendere anche Rita.”
La voce da fuori gli è familiare, si concentra. Suo cugino Enrico. Cosa ci fa lì fuori suo cugino Enrico? Si vedono solo a Natale.
“Ugo! Ma ci sei?”
Ugo rapidamente tira su le imposte e apre la finestra. Sotto di lui, suo cugino, lo guarda perplesso da dietro gli occhiali da sole.
“Buongiorno!” gli urla “Allora, scendi?”
A Ugo gira la testa, si regge al davanzale per non cadere. Fa un lungo respiro e dice
“Sono ubriaco.”
Suo cugino non lo sente, ma gli grida.
“Fammi entrare dai, che mi faccio un panino mentre ti prepari.”
Un quarto d'ora dopo sale in macchina di Enrico.
La macchina profuma di Arbre Magique e gli dà fastidio. Ma tace, perché suo cugino l'ha appena lavato e vestito ed è incazzato con lui come una bestia.
Stanno andando al funerale di sua zia. Questo è quanto. Lui si ricorda si sua zia, ma non la sopportava. In ogni caso sarà un massacro. Tutti i parenti in giostra a far vedere chi è più addolorato, chi è più incazzato. Non va bene, non va bene per niente.
Sua cugina Rita gli sorride da dietro l'apparecchio. Ha quindici anni e sta venendo su un cesso catastrofico come sua madre. Insposabile, inscopabile, pensa quando la vede. Ugo cerca di sorriderle almeno con gli occhi, ma sta solo cercando di tenere il mondo fermo. Non si è nemmeno messo sul sedile davanti e ci manda adesso Rita per potersi sdraiare. Sente le risate di sua cugina quando Enrico le spiega. Stronzi. Tutti quanti.
Non va bene per niente, tutto quanto. Probabilmente avrebbe più senso gettarsi dall'auto in corsa e mettersi a dormire tra i campi.
Il paese dove devono andare è abbastanza lontano, e se ne rallegra. Meglio stare sdraiato in auto che in piedi ovunque.
Suo cugino decide di infierire e fa partire la musica. Un'imbarazzante compilation italiana tipo Omar Pedrini, Negrita e Tiziano Ferro. Allegria.
Il problema non è tanto la musica, quanto le parole. Quanta banalità, meglio quello che scrive lui. Il giorno che riesce a farsi sentire da un discografico farà fortuna, è quello che pensa sempre.
Sua cugina da davanti chiede se vuole un succo di frutta. Disgusto e raccapriccio, ma potrebbe aiutarlo per la sbronza. Si tira su e afferra l'ace. Lo trangugia come se non bevesse dal duemilasei. Stavolta ride anche Enrico
“Cazzo, sei messo proprio male se ti bevi l'ace...”
Gli verrebbe da dirgli di stare zitto, ma lascia perdere.
È ancora talmente ubriaco da avere ancora dei lunghi momenti di vuoto.
“a-ah-ah a-ah amore fragile” viene dalla radio. Lui si mette le mani davanti alle orecchie per non sentire.
“Come potrebbe andare peggio di così?” è il pensiero che ha scendendo dalla macchina. Avvicinandosi al cimitero vede tutti i parenti riuniti e cerca di darsi un tono, una compostezza. Il vestito che ha è tutto stropicciato, e già nota lo sguardo di odio di sua madre.
Saluta tutti, con poche parole e sorrisi strascicati. È colpa loro in fondo. Se anche lui avesse dovuto far parte della veglia, da cui quelli della sua generazione sono esentati, sarebbe con loro, e sobrio.
Suo nonno lo prende sottobraccio e se lo porta via a fumare una sigaretta. Gli parla, gli racconta cose di sua zia, che era la cognata. Ma Ugo non ha fermezza, non ha pazienza. La sigaretta gli cade, due volte, ma il nonno è gentile, non ci fa caso. Lui per un momento “magari tutti fossero così”, ma neanche del nonno gliene frega molto. Ha avuto un negozio di frutta e verdura per tutta la vita, che palle. Ugo lo guarda come se fosse sordo, senza sentire le sue parole.
Questo finchè, il nonno non gli chiede.
“Ma non è la tua ragazza quella?”
Ecco. Non era tanto complicato.
“No, nonno, è la sua ragazza.” dice, indicando il tipo pelato che le viene dietro.
Lei è rossa in viso, sta male, ha probabilmente pianto. Lui è incazzato come un puma a vederlo, e ha tatuato un serpente sul collo. Tamarro.
Suo nonno continua
“Ah, non state più insieme.”
“No, ma siamo andati a letto insieme ieri sera, credo.” replica Ugo.
Il nonno sorride, quel modo di parlare diretto non gli piace, ma ormai si è abituato, pensa Ugo.
“E il suo fidanzato lo sa?” chiede il nonno, ridendo piano.
Ugo non risponde più. Probabilmente lo sa e se lo vede lo ammazza.
“Nonno, mi lasci un'altra sigaretta?”
“Ti lascio il pacchetto, io è meglio se non fumo.”
“Grazie nonno, ci vediamo dopo.”
Un'esperienza interessante, da raccontare. Ecco, forse non da raccontare, mentre si volta e rutta fortissimo. Ha rimesso l'anima in un fosso, e ora è vuoto come non mai.
Ha fame e nausea allo stesso tempo, ma di lì non lo schioda nessuno. Piano piano ricostruisce tutta la sera prima.
Gli sembra di aver vinto il concorso. Solo che non lo sa nessuno perché lui se n'era dimenticato. Qualcuno ha apprezzato la sua performance. Qualcun altra l'ha apprezzata talmente tanto da premiarlo in natura. Gli viene da ridere, anche se non c'è molto da ridere a stare sdraiato nel buco di una tomba. Sua madre sarà furente, ma non è che possono mettersi a cercarlo per tutto il cimitero proprio ora che c'è da interrare sua zia. Sarebbe poco rispettoso.
Sente qualcosa cadergli addosso. Guarda in alto il cielo grigio e capisce che comincia a piovere. Che sfiga. Il suo vestito è già pieno di terra. Con il fango sarà quasi perfetto. Ma non gli importa. Il vestito fa niente, tutto fa niente. Solo l'idea di aver fatto una follia la sera prima importa.
Cambiare tutto quanto, vedere gente nuova, essere capito per quello che è, non per quello che la sua famiglia vuole. Se ha vinto il concorso, forse se ne può andare.
Intanto la pioggia gli bagna il viso e lo fa sentire meglio. Accende una sigaretta, e in qualche modo riesce a fumare. Non piove troppo. La buca è poco profonda ma la pace è enorme. Desidera di essere anche lui un morto? Forse sì. Tanti problemi che troverebbero una soluzione semplice e pulita, ma il suicidio non è il suo stile. Meglio affidarsi al fato, magari una macchina lo metterà sotto il giorno giusto.
Pensa se toccasse a lui ricevere una zappata di terra in faccia. Manca la cassa, manca tutto. Non si può fare. Eppure quell'immobilità da dopo sbronza gli si confà. È un passaggio obbligato per l'alcolismo, si dice. Prima o poi uno comincia a godersi anche i dopo sbronza. Quelli non troppo dolorosi.
Poi apre gli occhi e guarda sopra di sé. Sono tutti lì, che lo guardano. Chi ride, come sua cugina, chi è perplesso. Sua madre gli parla.
“Va bene che hai perso la gara, Ugo, ma tirati su di lì.”
Lui dice
“Ma no, la gara l'ho vinta, mamma.”
Lei scuote la testa.
“Ugo, mi hai fatto preoccupare così tanto.” dice la sua ex.
“Carlotta, mi dispiace.”
“Non ti avevo mai visto bere così tanto, va be' che avevi perso, ma non era il caso.”
“Ringrazia che t'ho portato a casa” ringhia Loris, il suo fidanzato.
Il nonno lo guarda e gli dice
“Tirati su di lì.” con un gesto eloquente degli occhi.
Possibile che si sia sognato tutto? Possibile che stia sognando ora? Chiude gli occhi per qualche secondo e poi li riapre. Sono ancora tutti lì.
Qualcuno va via, come suo padre, suo nonno gli sorride ancora. Sua madre piange. La sua ex e Loris se ne vanno.
Ugo punta i gomiti e si mette a sedere. Non ha vinto, non cambia niente, è tutto come al solito, con una figura di merda in più che racconteranno su di lui. Raccoglie la giacca e si alza. È proprio ora di andare, ora che il funerale è finito.
melody day where have you gone
all the hope I had has gone away
and what we had has come undone
[da Melody Day, traccia numero 1 dell'album Andorra di Caribou, uscito nell'agosto 2007 su etichetta Merge]
foto da flickr.com, utente Ondablv, Sguardo sfuggente al destino inevitabile
scritto da Alberto Lioy, tra il 21 e il 30 ottobre 2012