Il suo cuore.
Era la sua croce, non la lasciava mai in pace. Tutte le volte che era in tensione, lo sentiva battere. Batteva quasi sempre regolare, ma bastava un sobbalzo o un'emozione forte, che le sbattesse più sangue in testa, a mandarla nella più completa confusione. Ricordava le corse in tram, nella città dove era cresciuta, con quegli sforzi incredibili per farlo battere più piano, i respiri lunghi e lenti.
Anche ora, nulla era cambiato, il suo cuore la condizionava. Si sentiva impotente davanti a lui come se le fosse estraneo, uno stupido ribelle animato da ragioni di cui mai nessuno l'aveva informata.
Era così anche in quel giorno d'inverno, con la neve sporca per terra, e il gelo che disegnava nuvole col fiato delle sue labbra. Lei camminava veloce senza mai voltarsi indietro. Ancora trenta passi. Ancora venti. Rallenta. Ancora quindici. Rallenta, cazzo. Ancora dieci. Per favore, per cortesia, non mi rovinare la serata. Cinque passi.
Gli ultimi cinque passi erano speciali, da fare con un senso, decidendo quali erano gli ostacoli da evitare, magari uno o due saltelli di bambina. Si guardò indietro per evitare che qualcuno ridesse di lei. Via libera. Fece il primo passo a destra, poi una piroetta, il secondo voltata di schiena, il terzo dritta, il quarto con la testa da un lato, e il quinto diritto.
Di fronte a sé, il pesante portone di metallo di casa sua. Era il portone di un condominio, ma avrebbe fatto miglior figura davanti a una caldaia o un magazzino . Almeno l'avevano dipinto di rosso.
Mise la chiave dentro e sentì un brivido, accompagnato dalla sensazione di essere osservata. Si guardò dietro le spalle, ma lo spazio era libero. Guardò in alto. Il pallido cielo d'inverno ricambiò l'occhiata, e le sussurrò che aveva sbagliato ancora. Tirò sul col naso cercando un odore, ma ricevette solo freddo e puzza di piscia. Ugualmente certa di aver ragione, alzò le spalle. Fece i pochi passi verso l'ascensore con gli occhi bassi.
Salendo si mise gli auricolari del walkman nelle orecchie per istinto di protezione. La musica c'entrava poco in quel momento. Qualche scossone dopo l'ascensore arrivò al piano.
Seduta sul divano, respirava l'odore dell'incenso a pieni polmoni. Ne aveva trovato uno ottimo, l'avrebbe ricomprato. Ma per il suo problema l'incenso faceva poco. Molto poco.
Le sue amiche sarebbero arrivate due ore dopo. Doveva ancora prepararsi del tutto. Avrebbe voluto accendere della musica, ora sì, per isolarsi ancora di più. Cosa le restava da fare? Fare finta di niente? Telefonare alle sue amiche e dire che la cosa non si faceva più, che se ne dovevano dimenticare? Eppure anche le altre volte, ogni volta che si avvicinava l'ora aveva solo voglia di scappare, di andare via, di rifiutare i loro stupidi riti, il trucco, le puttanate che dicevano. Quando lavoravano insieme per dei clienti le dava molto meno fastidio, a volte si sentiva lusingata, e poi i patti erano chiari, solo una volta ogni tanto. C'era una barriera e finchè non avesse lasciato che qualcuno l'abbattesse era ancora lei in controllo. D'altra parte era solo per i soldi, giusto? Perchè altrimenti si sarebbe potuta sognare l'appartamento, lo stereo, il computer e tutto il resto.
La cosa che le dava più fastidio era che proprio ora stava pensando di smettere di andarci, di farsi forza. Proprio oggi che la voglia di fare la scema, di fare quel lavoro stupido era così lontana da lei.
Si mise sdraiata. Poteva sempre andare via prima, poteva sempre sistemarsi in un bar o da qualche altra parte, persino in piscina. Stare due ore in casa ad aspettare l'avrebbe uccisa, e così il suo cuore, che la tormentava.
All'una il tassista si fermò davanti davanti al portone. Era sempre molto gentile, e non ci aveva mai provato, né aveva mai emesso un suono tutte le volte che, come quella sera, si cambiava sul sedile posteriore. Le sembrava sempre incredibile come possiamo camuffarci, come possiamo simulare allegria o tristezza a comando, mostrandoci altro da noi stessi. Sospirò forte, e neanche qui il tassista si voltò. Gli avrebbe dovuto dare una gran mancia, senza spiegazioni, una volta o l'altra. Lo guardò nello specchietto retrovisore. I capelli grigi uniformemente tinti, le rughe intorno agli occhi. Lo immaginava andare a casa all'alba e dormire le mattine, mentre sua moglie andava al lavoro. Magari andava a prendere i figli a scuola, o magari ormai erano troppo grandi. Come lei, che aveva ventidue anni.
Le prese la balzana idea di chiedere all'uomo di portarla in un bar, uno di quelli aperti per tutta la notte. Non beveva mai quando lavorava, anche se molti dicevano che aiuta. L'alcolismo era una malattia professionale molto diffusa nel suo campo, e di cascarci proprio non le andava. Ma un drink prima di tornare a casa se lo sarebbe fatto volentieri. Una pina colada, con tanto rum.
Fece per aprire le labbra, e chiedere, ma le rimasero lì incollate, mentre il cuore batteva. Non era il caso? Forse non era il caso.
Le vennero in mente i giorni del liceo, quando salire in ascensore per rientrare a casa era una pena tale che si conficcava le unghie nella carne fino a farsi sanguinare le mani. Si sentiva nello stesso modo, solo che aveva sonno.
Rientrando in casa lasciò la luce spenta e posò le scarpe e la borsa vicino alla porta. Ignorando qualche cosa si può farla cessare di esistere qualche volta, così stava facendo lei con il suo appartamento. L'odore familiare dei suoi mobili e della cera al miele che usava, la rassicurò, così come il buio. Si infilò nel bagno e mentre pensava a come sistemarsi i capelli perchè stessero fermi la notte, si mise a rassettare i prodotti che aveva sul ripiano e sul mobile. Ci voleva un po' d'ordine.
Seduta sulla tazza pensava a come i giorni sono tutti uguali, quando la vita scorre veloce. La cosa le faceva anche un certo piacere. Si accese una sigaretta. Di solito evitava di fumare in quel bagno senza finestra, ma oggi avrebbe fatto eccezione. Sapeva che l'odore l'avrebbe fatta sentire bene se si fosse svegliata di notte per andare in bagno. Dietro alle boccate di fumo ampie di chi non lo respira, pensò alle cose che le piaceva fare. C'era così tanto che avrebbe potuto scegliere, se solo l'avesse voluto, sia guardando avanti che indietro, di cosa si abbatteva? Era ancora giovane, abbastanza per ricominciare da zero ancora un'altra volta, due magari. Era solo tanto stanca, e non le andava. Spense la sigaretta con un pezzo di carta bagnato, e sbadigliò forte.
Quando la luce del sole oltrepassava la collina la sua camera all'ultimo piano veniva inondata di luce attraverso le tende chiare e sottili. Lei fu tentata di mettere la testa sotto il cuscino al posto di svegliarsi. Ci pensò nel dormiveglia, tra le immagini di un sogno ambientato in un luogo di mare. Poi aprì gli occhi.
Seduto sulla sedia nell'angolo, ancora in penombra, lui la guardava. Lei scosse la testa intorpidita, chiedendosi se lui fosse già lì quando lei si era messa a letto o se fosse arrivato dopo.
Lui sorrise con gli occhi, dietro le spesse borse e la barba non fatta. Disse tre parole
"Il circo riapre."
Lei scosse ancora la testa, e le spalle insieme, poi si stropicciò gli occhi e i capelli. Lo guardò, ma come se fosse un oggetto poco interessante, poco degno di attenzione. Lui fece crocchiare il collo a destra e a sinistra, trattenendo lei da fare lo stesso. Intanto continuava a tenere gli occhi posati su di lei, come se lei avesse potuto scomparire se non la guardava.
“Maria l'ho mandata via, tanto non mi aveva mai amato.”
Lei mimò un applauso con le mani, con una vena di sarcasmo che non aveva quasi mai. Si ributtò giù, con la testa sul cuscino, e voltò la testa dall'altra parte, come a dire che non le interessava.
Lui allora si alzò e aprì le tende, togliendo il filtro alla luce del mattino. Poi allungò una mano e prese le sigarette dal comodino. Se ne accese una e si rimise sulla sedia.
Da sdraiata lei sussurrò
“Non si fuma in casa.”
Lui rise, e battè la cenere sul davanzale.
“Fumi le mie sigarette, brava.” disse soltanto e si lasciò ricadere con la schiena appoggiata.
“Chiudi le tende.” bofonchiò lei.
“Dai, alzati, che dobbiamo andare.”
Lei mise la testa sotto il cuscino, ma anche da là sotto lui riconobbe le parole.
“Io non vengo.”
“Secondo me sì.”
Si mise a toglierle le coperte di dosso, ma con delicatezza, a poco a poco, e facendo in modo che non cadessero a terra.
Lei protestò mugugnando, poi si alzò di scatto e andò a chiudersi in bagno, senza guardarsi indietro. Si spogliò e aprì la doccia al massimo.
Seduta al tavolo della cucina, coi capelli legati in una coda, si chiedeva cosa stesse facendo. Ma intanto mangiava, le uova e i tost all'aglio erano buoni, come sempre. Certe cose non possono cambiare, pensò, riferendosi a molte cose diverse.
Lui era appoggiato al mobile della cucina e beveva caffè, soffiandoci sopra ad ogni sorso. Lei pensò che era bravo ad aspettare, pure troppo. Sarebbe stato più semplice per lei, altrimenti.
“Sono tornati tutti, Olgar, Mario, Michele, e anche Ionut dalla Romania. Facciamo sul serio.”
“Un grande circo, con l'acrobata più vecchio del paese.” disse lei con la bocca piena. “Auguri.”
Lui rise ancora, e di gusto, scoprendo i denti. La cosa la irritò al punto che gli rispose.
“Cazzo ridi?” le uscì dai denti. “Ti ammazzerai.”
“Lasciami ridere, non sai ancora il resto.”
Prese un altro sorso di caffè e aggiunse
“Il padrone sono io, e il padrone ha un suo numero, ma alla fine.”
Lei sapeva che era vero, ma ancora non capiva.
“Faccio il clown, come tanti anni fa." poi si prese una pausa e la guardò dritta negli occhi, ottenendo la sua completa attenzione. Poi aggiunse "L'acrobata lo fai tu, come hai sempre voluto.”
Lei posò la forchetta e il coltello. Il suo viso prese una tinta di rosso acceso. Ricordi l'avevano assalita tutti di un colpo, paure ed emozioni. La luce, quella luce che non finisce mai, che ti inonda tutta e ti fa tremare e vibrare, quando sei lassù in cima. Quanto tempo era passato? Quando l'aveva desiderata? Lacrime piccole e lente le solcarono il viso.
Lui le si avvicinò e le prese la testa tra le mani, accarezzandole i capelli. Lei disse
“Tu lo sapevi.”
“Che cosa? Il mestiere che fai qui per mantenerti? Ma come fa una cosa così a rimanere nascosta, Angela? Come fa? Con tutta la gente che conosciamo noi del circo...”
Lei pianse ancora, un fiume, che non voleva smettere di correre a valle verso il mento. Lui prese della carta e le asciugò il viso. Un po' di trucco non tolto della sera prima restò impresso. Lui ne rise, e lei anche, di getto.
“Papà, quanto mi vergogno.” disse piano.
“Per cosa? Per aver aperto una scuola per chi vuol fare il clown? Per avermi rubato il mestiere anche se odi fare il clown? Ma figuriamoci.”
Lei prese fiato tra i singhiozzi.
“E chi fa l'acrobata con me? Tu hai detto che fai il clown, ma io non posso mica andare da sola.”
“Sai quanti anni ha adesso tuo fratello Eros?”
“Diciotto.” annuì lei e si sentì invadere da una vampa di calore che non sentiva da molto tempo.
“Il treno parte stasera. Ce la fai a mettere via tutto?”
“L'appartamento lo tengo per adesso.” poi si fermò per un momento. “Papà, solo una cosa, e se Maria torna?”
Lui alzò le spalle e disse.
“Hai il mio permesso di restituirle la sberla che ti ha dato il giorno che te ne sei andata.”
Lei ne rise, dietro le lacrime, e lasciò il suo abbraccio per andare a prendere la valigia.
now he has to kidnap you,
and keep you bound in endless light
and you know he never lets you leave
'cause blood is clear, it never lies
[da Blood Never Lies, traccia numero 4 dell'album Demolished Thoughts di Thurston Moore, uscito nel maggio 2011 su etichetta Matador]
foto da flickr.com, utente amiefedora, Professional Makeup
scritto da Alberto Lioy, tra il 3 e il 7 ottobre 2012