Anna fuma guardando il mare. Con una mano stringe la sigaretta e con l'altra dipinge figure per aria, batte le punte delle dita l'una sull'altra, poi sul tavolo del balcone, e ancora le riporta a distendersi e a flettersi. Musica dall'interno della stanza, forte da sentire tutte le parole attraverso una finestra chiusa. Manda un po' di cenere a morire in fondo ad un piattino, si passa la lingua sulle labbra. Rossetto, sangue, e una punta di cachaça.
Non facciamo mai niente per niente, non facciamo mai niente, mai niente, niente.
Guarda il rosso della sigaretta, ci soffia sopra per liberarlo della parte già ossidata e lo avvicina al polso snello pieno di bracciali. Con lentezza muove la sigaretta, che ondeggia del tremare della sua mano destra, il cui mignolo non si piega più. Sfiora i peli biondi sul braccio, quasi invisibili, impercettibili, sempre più vicino alla pelle. Immagina il segno, la forma, l'odore, mentre riconosce ogni singola particella di tabacco bruciato che si sta infrangendo di calore.
Non è giusto, questa vita non è giusta, non doveva andare così.
Sposta la sigaretta e la appoggia alle labbra, prende una boccata lunghissima, ma la sigaretta è fatta per consumarsi lentamente e brucia poco. Inghiotte il fumo, e rivela per qualche istante il pallore del suo viso. La musica le giunge talmente forte, che dall'interno sarebbe stata insostenibile, che follia, che bambinata. Ormai certe cose sono passate di moda, sono venute a noia anche a quelli che le hanno immaginate, che le facevano quando non avevano ancora un nome, perché hanno scoperto che erano vuote come loro.
Non sono colpevole dei crimini di cui mi accusi, l'unica colpa che ho è che ho paura.
Il viso si contrae in una morsa di tensione nel cui nodo c'è il naso, lungo e ossuto, elegante, d'antan. Lo scioglie, strizza gli occhi, passa la lingua sui denti, ci sono ancora tutti, tutti quanti, per mangiare. Di cosa si ciba chi non ha più appetito? Ambrosia, pane degli angeli, acqua di vite, e naturalmente, fegato. Si succhia la guancia dall'interno, stando attenta a che non sanguini. Il disgusto sale, l'insensatezza crea interstizi tra una costola e l'altra, tra lo stomaco e i bronchi, proprio lì dove sta l'anima, dove l'abbiamo reclusa perché non possa fuggir via a suo volere, lasciandoci ancor più cavi. Il vento le butta i capelli sul viso, neanche lui le vuole bene e non la lascia stare. Il sole sale completamente sopra l'orizzonte, per dare via a un'altro inutile giro di luce sopra l'oscurità. Se ci lasciasse al buio nessuno saprebbe più accorgersi della differenza.
Dobbiamo provarci ancora una volta, se ci riuscissimo, sai quanto sarebbe dolce?
Raccoglie un po' di sale dal bordo del bicchiere con la punta del pollice, se lo passa sulla lingua. Scaglia via la sigaretta con le dita, come se dovesse farla arrivare in mare. La aiuta non vedere dove cade, come se avesse potuto farla svanire con la forza di una mano. Scosta la sedia mandandola a sbattere contro la sua immagine riflessa nella porta vetrata. Ancora uno sguardo all'orizzonte, in una contemplazione dell'inutilità dell'alba, della sua totale mancanza di senso. Così sia. Ancora un giro di sole, immotivato, inutile, un raggiro, un numero di prestigiatore da tre soldi che abbiamo pagato in anticipo.
Non voglio farti del male senza ragione, ma ho paura. Soltanto paura.
Apre la finestra e viene investita da un flusso di musica assordante. La chiamano IDM, ma nessun rumore è intelligente quando pretende di essere l'unico, quello che li eclissa tutti. Abbassa la manopola con un gesto deciso, mandato a memoria nei mesi. Lo scroscio della doccia rimpiazza la musica, con perfetta scelta di tempo del direttore d'orchestra. Lei sogghigna con l'aria più sgradevole che le riesce, come davanti a un pubblico seduto su quel letto vuoto e disfatto. Applausi d'acqua corrente, calda, il cui vapore esce a fiocchi trasparenti da sotto la porta. Si muove sui tacchi schivando una bottiglia e un bicchiere, senza allontanare la smorfia dal suo viso. Appoggia una mano alla porta immacolata, con la sua stupida maniglia di ottone laccato. La spinge avanti per lasciare che la nuvola di fumo umido la investa. Cerca la sua immagine nello specchio coperto di gocce, senza trovarla, serra i denti e lascia cadere le braccia lungo le anche strette. Gli occhi si fanno piccoli, nervosi, si mettono a cercare, mentre le caviglie sono inchiodate al pavimento.
La nebbia si dirada lentamente.
La porta le nasconde la vista della vasca da bagno scura, nell'angolo di quel ridicolo sfarzo di bagno, nero come la tomba di un'antipatico.
Mi spiace ricordartelo ancora, ma ho paura di quello che creiamo, quando siamo insieme.
È un copione già scritto, già interpretato, in tanti sono già passati per il suo stesso sentiero. Il sentore dell'altrui squallore, dell'essere un cliché, uno sterotipo di donna, un timbro schizzato di rosso. Serra il pugno, pianta le unghie nella palma della mano, manda la porta a rovinare contro i cardini, scosta la tenda della doccia.
Il pallore sotto a tutta quell'acqua calda. Il colore dell'acqua, che si schiara poco a poco, sempre meno scarlatto, sempre più trasparente. Chiude gli occhi, si appoggia sul bordo della vasca e chiude la manopola.
Noia e pazzia, calma e violenza, fermezza e indecisione, forma e natura, spirito e carne.
Con tutti quei peli sul petto, tutta quella virilità sprecata, la barba incolta per nascondere, per creare una maschera da uomo su un viso troppo gentile per un temperamento fumantino. La nudità, un sesso maschile svuotato, che non ha più gocce di sangue da piangere, un corpo massiccio quanto inutile. Un orologio d'oro al polso, coperto di sangue, ticchetta metallico.
Lei si limita a guardare, ha posato le mani in grembo. In passato ci ha provato tre volte, sempre con le pillole. Cerca di immaginare se stessa in quella posizione, senza successo. Mai lei si sarebbe fatta trovare nuda, mai così indifesa. Mai.
Ancora un'imposizione, ancora una decisione subita, un'offesa. Si sposta dalla vasca, prende un asciugamano e ripulisce lo specchio dal vapore sudicio che le impedisce di vedersi. Bagna un lembo sotto il rubinetto e prende a struccarsi. Sotto uno strato di fondotinta la sua pelle di ragazza di ventinove anni le sembra falsa, non è più abituata a vedersi senza trucco. Il colorito giallognolo del suo viso confessa tutto il suo livore.
Perché tentare ancora, se già aveva deciso che sarebbe finita in questo modo? Spera di non stare ancora recitando una sua commedia, se lui avesse previsto anche questo, che lei non l'avrebbe toccato, e si sarebbe occupata di se stessa. Chissà se fosse un dono, un ti libero di me.
I suoi regali non le erano mai piaciuti, le erano sempre parsi una condanna, fatti di quella cortesia che è la forma più limpida di disprezzo. Lui e i suoi crolli, le sue grida, le sue corse insensate, le sue telefonate. In tutti i modi avrebbe potuto chiamarlo, ma non amore. Legge, sentenza, la prigionia con un guardiano che sorveglia il cuore e non concede mai una mossa fuori schema.
Quella telefonata il giorno prima, un anno dopo. Il volo prenotato per lei, fila due posto a, nessun altro passeggero in classe commerciale, la solitudine dei soldi, tanto da chiedere di potersi sedere con tutti gli altri. Due pillole, il sonno sintetico di qualche ora, di qualche istante. La mancanza di senso.
La legge le dice che è suo marito.
Il nero le si addice, colore del lutto. Sa che potrebbe essere ancora vivo, anche nonostante quel sangue, per questo non lo tocca.
Si gira intorno, gli occhi color della nocciola rovistano, in ogni angolo. Una preghiera, una supplica, una speranza. Non lo vuole sapere veramente. Che arte c'è nel filmare la vita vera? La vita vera non deve essere catturata, la vita è vera solo quando è effimera, quando può sfuggire alla memoria, quando si può rielaborare, ripensare, cambiare e forse, dimenticare. La sta riprendendo anche ora?
Finisce di struccarsi e lega i capelli in una coda da ragazza. Ha perso dieci anni in un minuto, li riacquisterà a tempo debito. Si volta ancora verso la vasca, verso quel corpo massiccio, quell'opulenza e quella cura, quelle ferite chirurgiche, scavate da un paio di forbici d'albergo. La pietà di una cameriera forse lo salverà, ma non la sua.
Esce dal bagno, scavando coi tacchi dentro la moquette e raduna i soldi gettati sullo scrittoio. Guarda la stanza d'albergo intorno a sé, come se fosse la prima volta, come se non ci fosse mai stata prima. Come se non ci avessero trascorso quei mesi di follia.
Oltre la finestra il mare rischiarato dal sole illumina la stanza. Una nuova verginità per i misfatti di ieri e per quelli di domani, per i delitti che abbiamo compiuto in sogno, che qualcun altro ha fatto per noi perché eravamo troppo sfiniti anche per essere cattivi.
Il colore giallastro che il sole dà alle pareti attraverso i vetri anneriti è la luce del livore, che, Anna lo sa, la sta già seguendo molto oltre quella stanza.
I don't want to hurt you
for no reason have I but fear
and I ain't guilty of the crimes you accuse me of
but I'm guilty of fear
I'm sorry to remind
you but I'm scared of what we're creating
this life ain't fair
you don't get something for nothing, turn now
mmmm gotta try a little harder
it could be sweet
[da It could be sweet, traccia numero 4 dell'album Dummy dei Portishead, uscito nell'agosto 1994 su etichetta Go! Beat]
foto da flickr.com, utente supercake, My Room
scritto da Alberto Lioy, sabato 17 novembre 2012
Non facciamo mai niente per niente, non facciamo mai niente, mai niente, niente.
Guarda il rosso della sigaretta, ci soffia sopra per liberarlo della parte già ossidata e lo avvicina al polso snello pieno di bracciali. Con lentezza muove la sigaretta, che ondeggia del tremare della sua mano destra, il cui mignolo non si piega più. Sfiora i peli biondi sul braccio, quasi invisibili, impercettibili, sempre più vicino alla pelle. Immagina il segno, la forma, l'odore, mentre riconosce ogni singola particella di tabacco bruciato che si sta infrangendo di calore.
Non è giusto, questa vita non è giusta, non doveva andare così.
Sposta la sigaretta e la appoggia alle labbra, prende una boccata lunghissima, ma la sigaretta è fatta per consumarsi lentamente e brucia poco. Inghiotte il fumo, e rivela per qualche istante il pallore del suo viso. La musica le giunge talmente forte, che dall'interno sarebbe stata insostenibile, che follia, che bambinata. Ormai certe cose sono passate di moda, sono venute a noia anche a quelli che le hanno immaginate, che le facevano quando non avevano ancora un nome, perché hanno scoperto che erano vuote come loro.
Non sono colpevole dei crimini di cui mi accusi, l'unica colpa che ho è che ho paura.
Il viso si contrae in una morsa di tensione nel cui nodo c'è il naso, lungo e ossuto, elegante, d'antan. Lo scioglie, strizza gli occhi, passa la lingua sui denti, ci sono ancora tutti, tutti quanti, per mangiare. Di cosa si ciba chi non ha più appetito? Ambrosia, pane degli angeli, acqua di vite, e naturalmente, fegato. Si succhia la guancia dall'interno, stando attenta a che non sanguini. Il disgusto sale, l'insensatezza crea interstizi tra una costola e l'altra, tra lo stomaco e i bronchi, proprio lì dove sta l'anima, dove l'abbiamo reclusa perché non possa fuggir via a suo volere, lasciandoci ancor più cavi. Il vento le butta i capelli sul viso, neanche lui le vuole bene e non la lascia stare. Il sole sale completamente sopra l'orizzonte, per dare via a un'altro inutile giro di luce sopra l'oscurità. Se ci lasciasse al buio nessuno saprebbe più accorgersi della differenza.
Dobbiamo provarci ancora una volta, se ci riuscissimo, sai quanto sarebbe dolce?
Raccoglie un po' di sale dal bordo del bicchiere con la punta del pollice, se lo passa sulla lingua. Scaglia via la sigaretta con le dita, come se dovesse farla arrivare in mare. La aiuta non vedere dove cade, come se avesse potuto farla svanire con la forza di una mano. Scosta la sedia mandandola a sbattere contro la sua immagine riflessa nella porta vetrata. Ancora uno sguardo all'orizzonte, in una contemplazione dell'inutilità dell'alba, della sua totale mancanza di senso. Così sia. Ancora un giro di sole, immotivato, inutile, un raggiro, un numero di prestigiatore da tre soldi che abbiamo pagato in anticipo.
Non voglio farti del male senza ragione, ma ho paura. Soltanto paura.
Apre la finestra e viene investita da un flusso di musica assordante. La chiamano IDM, ma nessun rumore è intelligente quando pretende di essere l'unico, quello che li eclissa tutti. Abbassa la manopola con un gesto deciso, mandato a memoria nei mesi. Lo scroscio della doccia rimpiazza la musica, con perfetta scelta di tempo del direttore d'orchestra. Lei sogghigna con l'aria più sgradevole che le riesce, come davanti a un pubblico seduto su quel letto vuoto e disfatto. Applausi d'acqua corrente, calda, il cui vapore esce a fiocchi trasparenti da sotto la porta. Si muove sui tacchi schivando una bottiglia e un bicchiere, senza allontanare la smorfia dal suo viso. Appoggia una mano alla porta immacolata, con la sua stupida maniglia di ottone laccato. La spinge avanti per lasciare che la nuvola di fumo umido la investa. Cerca la sua immagine nello specchio coperto di gocce, senza trovarla, serra i denti e lascia cadere le braccia lungo le anche strette. Gli occhi si fanno piccoli, nervosi, si mettono a cercare, mentre le caviglie sono inchiodate al pavimento.
La nebbia si dirada lentamente.
La porta le nasconde la vista della vasca da bagno scura, nell'angolo di quel ridicolo sfarzo di bagno, nero come la tomba di un'antipatico.
Mi spiace ricordartelo ancora, ma ho paura di quello che creiamo, quando siamo insieme.
È un copione già scritto, già interpretato, in tanti sono già passati per il suo stesso sentiero. Il sentore dell'altrui squallore, dell'essere un cliché, uno sterotipo di donna, un timbro schizzato di rosso. Serra il pugno, pianta le unghie nella palma della mano, manda la porta a rovinare contro i cardini, scosta la tenda della doccia.
Il pallore sotto a tutta quell'acqua calda. Il colore dell'acqua, che si schiara poco a poco, sempre meno scarlatto, sempre più trasparente. Chiude gli occhi, si appoggia sul bordo della vasca e chiude la manopola.
Noia e pazzia, calma e violenza, fermezza e indecisione, forma e natura, spirito e carne.
Con tutti quei peli sul petto, tutta quella virilità sprecata, la barba incolta per nascondere, per creare una maschera da uomo su un viso troppo gentile per un temperamento fumantino. La nudità, un sesso maschile svuotato, che non ha più gocce di sangue da piangere, un corpo massiccio quanto inutile. Un orologio d'oro al polso, coperto di sangue, ticchetta metallico.
Lei si limita a guardare, ha posato le mani in grembo. In passato ci ha provato tre volte, sempre con le pillole. Cerca di immaginare se stessa in quella posizione, senza successo. Mai lei si sarebbe fatta trovare nuda, mai così indifesa. Mai.
Ancora un'imposizione, ancora una decisione subita, un'offesa. Si sposta dalla vasca, prende un asciugamano e ripulisce lo specchio dal vapore sudicio che le impedisce di vedersi. Bagna un lembo sotto il rubinetto e prende a struccarsi. Sotto uno strato di fondotinta la sua pelle di ragazza di ventinove anni le sembra falsa, non è più abituata a vedersi senza trucco. Il colorito giallognolo del suo viso confessa tutto il suo livore.
Perché tentare ancora, se già aveva deciso che sarebbe finita in questo modo? Spera di non stare ancora recitando una sua commedia, se lui avesse previsto anche questo, che lei non l'avrebbe toccato, e si sarebbe occupata di se stessa. Chissà se fosse un dono, un ti libero di me.
I suoi regali non le erano mai piaciuti, le erano sempre parsi una condanna, fatti di quella cortesia che è la forma più limpida di disprezzo. Lui e i suoi crolli, le sue grida, le sue corse insensate, le sue telefonate. In tutti i modi avrebbe potuto chiamarlo, ma non amore. Legge, sentenza, la prigionia con un guardiano che sorveglia il cuore e non concede mai una mossa fuori schema.
Quella telefonata il giorno prima, un anno dopo. Il volo prenotato per lei, fila due posto a, nessun altro passeggero in classe commerciale, la solitudine dei soldi, tanto da chiedere di potersi sedere con tutti gli altri. Due pillole, il sonno sintetico di qualche ora, di qualche istante. La mancanza di senso.
La legge le dice che è suo marito.
Il nero le si addice, colore del lutto. Sa che potrebbe essere ancora vivo, anche nonostante quel sangue, per questo non lo tocca.
Si gira intorno, gli occhi color della nocciola rovistano, in ogni angolo. Una preghiera, una supplica, una speranza. Non lo vuole sapere veramente. Che arte c'è nel filmare la vita vera? La vita vera non deve essere catturata, la vita è vera solo quando è effimera, quando può sfuggire alla memoria, quando si può rielaborare, ripensare, cambiare e forse, dimenticare. La sta riprendendo anche ora?
Finisce di struccarsi e lega i capelli in una coda da ragazza. Ha perso dieci anni in un minuto, li riacquisterà a tempo debito. Si volta ancora verso la vasca, verso quel corpo massiccio, quell'opulenza e quella cura, quelle ferite chirurgiche, scavate da un paio di forbici d'albergo. La pietà di una cameriera forse lo salverà, ma non la sua.
Esce dal bagno, scavando coi tacchi dentro la moquette e raduna i soldi gettati sullo scrittoio. Guarda la stanza d'albergo intorno a sé, come se fosse la prima volta, come se non ci fosse mai stata prima. Come se non ci avessero trascorso quei mesi di follia.
Oltre la finestra il mare rischiarato dal sole illumina la stanza. Una nuova verginità per i misfatti di ieri e per quelli di domani, per i delitti che abbiamo compiuto in sogno, che qualcun altro ha fatto per noi perché eravamo troppo sfiniti anche per essere cattivi.
Il colore giallastro che il sole dà alle pareti attraverso i vetri anneriti è la luce del livore, che, Anna lo sa, la sta già seguendo molto oltre quella stanza.
I don't want to hurt you
for no reason have I but fear
and I ain't guilty of the crimes you accuse me of
but I'm guilty of fear
I'm sorry to remind
you but I'm scared of what we're creating
this life ain't fair
you don't get something for nothing, turn now
mmmm gotta try a little harder
it could be sweet
[da It could be sweet, traccia numero 4 dell'album Dummy dei Portishead, uscito nell'agosto 1994 su etichetta Go! Beat]
foto da flickr.com, utente supercake, My Room
scritto da Alberto Lioy, sabato 17 novembre 2012