Mi svegliai in una pozza di sudore. Il dolore al fianco era più lancinante che mai quella mattina e già all'alba avevo avuto voglia di pisciare, ma avevo rigettato la testa sul cuscino, costringendomi a dormire. Mai avrei pensato di stare così male per così poco. Nella stanza accanto un letto più comodo del mio, dove aveva dormito lei, era vuoto. Mi alzai e passai un lungo quarto d'ora in bagno. Guardandomi nello specchio grande della cucina notai le mie ferite. Presi l'alcol per allungare i drink e me lo passai in viso, una volta finito avrei dovuto ricomprarlo, svolgeva la sua funzione molto meglio del dopobarba. Misi la camicia grezza, che anche dopo lavata mi sembrava sapesse ancora di tessuto.
La luce del sole era bassa sotto la coltre di nuvole e la campagna mi lasciava in bocca quel sapore di acqua salata che il terreno suda quando non può respirare. Anch'io ero in apnea, a modo mio, petto in fuori, addominali tesi, potevo sentire il mio diaframma piegarsi sotto i bottoni della camicia mentre spostavo le cosce avanti passo dopo passo. La mano destra era stretta a pugno, la sinistra roteava su se stessa, le dita piegate che picchiettavano le une contro le altre. Tenere il tempo era qualcosa per cui non avevo talento, per cui ero obbligato a farlo a caso. Avevo il sospetto che la mia andatura, che mai seguiva una linea retta fosse individuabile persino dalle orme sull'asfalto, ma non potevo e non volevo sincerarmene. Avrei dovuto chiedere a Giuseppe, era il tipo di cosa che lui sapeva, anche se non riguardava i cavalli. Riguardava le strade e questo era più di quanto bastasse.
Arrivai in negozio dieci minuti in anticipo, così ebbi il tempo di spazzare il marciapiede davanti. Sputai sul pavimento nonostante ci fosse più fango che polvere, per mescolarmi con il suolo su cui mi sarei tanto volentieri disteso. Una volta mi ci aveva trovato una zia, ma mi aveva lasciato stare.
Servii i clienti per tutta la mattina, senza smettere un momento. Più lungo, più corto, più colore, un fiocco, un bottone, un inserto, una piccola cerniera invisibile per nascondere il gonfiore sulla pancia.
A pranzo presi due patate ripiene di formaggio dal banchetto che passava, chiamandolo con un fischio e restai fuori a mangiarle in strada, così che se qualcuno voleva entrare poteva aspettare fuori con me. Feci un passo avanti mentre cercavo di non scottarmi, affinché la mia testa sporgesse fuori dal balcone della casa e io potessi sentire la coltre di pioggia posarsi su ogni mio morso, e potessi poi scuoterla dalla testa. Ci soffiavo sopra in modo esagerato, cercando di fare rumore, più che potevo. Ogni tanto ero obbligato a piegare il collo in avanti, o ad aggiustare la mia postura su un fianco. Le reni mi dolevano come non mai, sempre in piedi, come una bestia. Avrei lavorato volentieri seduto, ma non si poteva, era poco professionale.
Il pomeriggio sembrò infinito, e le lancette dell'orologio a muro di tanto in tanto tremavano tra un minuto e l'altro, anche loro avevano paura di dirsi che la cosa più spaventosa di un'attesa è che è destinata a terminare. Decisi che avrei chiuso un quarto d'ora in anticipo. Era un buon compromesso, e poi ero arrivato prima alla mattina. Ascoltai il rumore delle tapparelle pregando a ogni discesa verso il basso che non fosse il momento di assistere a un incastro. La settimana prima, quando mi si era fulminata una lampadina in casa, prima avevo riso forte, e poi avevo bestemmiato, ancora più forte, come un pazzo che gioca la sua commedia davanti a dei mobili come spettatori. Ero pronto a fare lo stesso, anche in mezzo alla via centrale del paese. La mia reputazione di ragazzo tranquillo forse ne avrebbe beneficiato. La gente diffida della gente con poche sfaccettature, i personaggi coerenti sono noiosi dopo poche righe.
Nel piazzale della stazione i taxi mi guardarono dietro le loro livree gialle a scacchi, come delle vecchie prostitute tirate a lucido per il primo cliente di giornata, ma non mi andava di farmi portare in groppa. Già stavo sul mio destriero tutto il giorno, mi ripetevo sempre, riferendomi all'unico cavallo che avessi mai posseduto, quello dei pantaloni. Avessi potuto, avrei fatto il mio mestiere taglia e cuci con le vergogne all'aria, ma dubito che le signore avrebbero apprezzato.
Passando davanti ad un fioraio mi fermai a prendere delle margherite talmente grosse che sarebbe valsa la pena di farle in insalata con un filo di aceto balsamico e di limone. Avevano dei colori un po' fané, ma in fin dei conti essere fuorimoda era uno dei pochi modi di essere originali che fossero rimasti, come gridava già da qualche anno la mia giacca viola.
La camicia mi grattava sul petto e le fitte al fianco andavano a ritmo con ogni mio passo in uno costante stantuffare di nervi vene muscoli e anima grama tanto che faticavo a tenerli compressi sotto la pelle. Certe notti, nel dormiveglia dei doloranti, fantasticavo di andare in cucina, prendere il coltello più affilato e cavarmi il rene dal fianco, anche se non era lui la causa, anche se avessi poi scoperto che era solo uno strappo muscolare. Ero certo che dopo sarei stato meglio. Guardando in fondo alla via vidi la scogliera avvicinarsi e pensai ancora una volta all'onda. Camminando su quel fondo del mare di pianura, qualcuno da bambino mi aveva detto che un giorno sarebbe arrivata una grande onda e avrebbe riportato il mare lì dove doveva stare e avrebbe riportato la scarpata che separava le due parti del villaggio ad essere una scogliera di mare. Da allora in poi avevo chiamato gli abitanti di sopra “emersi”, dando per scontato che noialtri fossimo per natura destinati ad essere i sommersi.
Quando la strada, dipanandosi di curva in curva, mi portò in cima, era ormai buio, e la luce dei lampioni formava coni di gocce d'acqua. I miei fiori parevano coperti di rugiada ed erano già un po' sgualciti, come se qualcuno li avesse sfregati tra le dita. Non ero stato io, ad ogni modo. Sotto la grande tettoia, una luce al neon illuminava quell'ammasso di materia tanto grande da parere uno scherzo. Mentre mi avvicinavo, ecco apparire mani piedi, volti, orme.
Lei era lì, in piedi, sfruttando il meglio del suo metro e settanta, la sua salute resa evidente dallo slancio delle gambe verso l'alto mentre si spostava e passava lo scalpello come mitraglia a sbozzare un altro angolo di pieno, per dargli la leggerezza del vuoto.
“Un giorno farai una città intera, di persone di pietra, e nessuno potrà dire la differenza.”
La mia voce era risuonata con un'eco ridicolo sotto la tettoia, e le aveva già rubato un sorriso. Mentre mi chiedevo che cosa l'avesse fatta sorridere, lei mi rimandò indietro con un gesto della mano, e intanto disse
“Sono sopravvalutata, come tutti gli artisti che vengono pagati. La gente pensa che siamo migliori degli altri, ma in realtà non è vero.”
“Posso fermarmi, adesso?” chiesi, mentre indietreggiavo.
“No, aspetta, ho fatto le prove oggi, ti devi fermare dove c'è quel grosso ramo e dirmi.”
Raccolse il neon da terra, lo avvicinò alla pelle e al cuore della pietra, per farmi vedere le sue ferite, le sue offese. Io ero tanto stanco da sentirmi come se lei stesse illuminando me, il mio volto di cartapesta, la mia mano tremante, le mie spalle rigide, le mie ginocchia offese. Stavo riprendendo fiato, avevo a malapena la forza di parlare, e guardare si rivelò un'impresa sovraumana.
“Dopo, te lo dico dopo. Dammi tempo.” dissi alzando le mani in segno di resa.
Lei rise
“Meglio se stai attento, che tra tra poco ti cade l'insalata.”
Io abbassai le mani e mi avvicinai di nuovo.
“Anche tu li vuoi mangiare? Dai, tieni.” strappai un petalo azzurro e glielo porsi.
“Così dalle tue dita? Dimmi, ti sei lavato le mani, almeno?”
“Dove?” feci, lasciando che il petalo andasse volteggiando a terra.
Lei non rispose, ma andò ancora a cercare, dietro il tavolo da lavoro.
“Vino bianco, complimenti.” dissi guardando la bottiglia.
“Non ti aspettare niente di che, il signore che l'ha portato era un rozzo di campagna, senza buone maniere.”
“Magari voleva qualcosa in cambio.”
“Tutti vogliono qualcosa in cambio, ma non per questo bisogna darglielo.”
“Cos'é? Chi merita, ha?”
Lei rise, mentre inghiottiva il vino dalla bottiglia.
“Mica tanto se uno ci pensa a posteriori, chi merita piglia poco.”
“Tutto a caso, insomma.” mentre lei mi passava la bottiglia.
“Ma no, adesso non esageriamo, fortuna, caso, merito, spirito della giornata, cose così.”
“A me piace.” dissi.
“Ti piace il caso? Non l'avrei detto. Sei un fatalista, allora.””
“Parlavo del vino. Dire che mi piace il caso sarebbe una contraddizione in termini.”
“Perchè? Dove sta la contraddizione?”
“Se mi piace, vuol dire che non era un caso.”
“E allora, cosa mi dici di questa questa bestia che sta venendo fuori qui dietro, ti piace o è un caso?”
Io scossi la testa e presi a guardarla negli occhi. Eravamo seduti a terra, con la bottiglia di vino in mezzo.
“Non ho ancora deciso. Ma mi sta bene.”
“A me comincia a dar sui nervi. Me ne hanno già parlato in troppi, e non l'ho ancora nemmeno finita. Mi fanno tutti i complimenti di come il marmo libera questi uomini, questi corpi. A parte che non è marmo, se no ci metterei una vita, ma ad ogni colpo che gli dò, mi sembra che sarebbe stato meglio lasciare che la pietra se ne stesse a riposare. È tutto una tale follia.”
Non avevo la minima idea su se condividessi quello che lei diceva o no. Sapevo solo che i miei muscoli e le mie ossa non mi avevano ancora abbandonato, e neanche il mio fine, la voglia di qualcosa che mi tenesse vivo. In quel momento ce l'avevo lì davanti a me, e mi sorrideva. Tante cose avrei voluto chiederle, quanto ti fermi, dormirai di nuovo da me questa sera, sei davvero così straordinaria come ti vedo io o fai finta, ma sapevo di non potere. Conoscevo le regole del gioco, e sapevo quanto fosse crudele. Sapevo di quei momenti di tortura in cui il cuore non riesce a respirare e il cervello dispera una soluzione. Sarebbe bastato, un “ma tu sei ancora tu? perchè, io, da parte mia, sono certo di essere ancora io.” Era passato un giorno soltanto, ma ora sembrava lungo una vita intera, come se lei fosse stata mia moglie in una vita precedente e avessi la possibilità di stare con lei anche in questa.
“Croissant alla marmellata.” esalai.
“Cosa?” disse lei, che stava parlando di tutt'altro “Allora non mi stavi ascoltando.”
“Invece sì. Comunque, croissant alla marmellata.”
“Buoni.” disse lei.
“Domani mattina alle sette li metto in forno, alle sette e un quarto sono pronti.”
Lei restò in silenzio e io pure, mentre l'aria fischiava in un'alito di vento per farci da contrappunto.
Mi alzai in piedi e feci qualche passo verso la scogliera guardando di sotto. Nell'oscurità i punti delle case dove ero cresciuto mi sembrarono le luci dei pescatori che incontrano la vita nascosta dentro le notti oceaniche. Il vento e l'umido agitavano i miei capelli mentre i miei occhi si chiudevano per la stanchezza del giorno. Le mie orecchie si irrigidirono di colpo nell'udire i suoi passi, il fruscio delle due gambe dei pantaloni l'una contro l'altra, il contatto tra l'aria e il suo viso mi sembrava più tangibile di tutte le sculture del mondo, nella mia immaginazione.
Inatteso, violento, arrivò il dolore nella schiena. Di colpo mi sentii pugnalato, ucciso, contrassi in smorfia di dolore occhi e baffi, bocca e naso, e cercai con tutte le forze di non svenire.
Fu il fatto che quel dolore venisse da un suo abbraccio che mi impedì di crollare sulle ginocchia. Il suo odore di sudore e terra, e il calore del suo viso appoggiato sulla mia spalla, rimisero in rotta verso casa il mio cuore. Era tutto quello che sapevo.
Mi girai sui tacchi e le diedi un bacio.
"I am overrated," said the sculptress to the sea.
"I've been praised for all the ways the marble leaves the man,
And I was wrong to try and free him."
And as for me, I am a vector, I am muscle, I am bone.
The sun upon my shoulders and the horse between my legs,
This is all I know.
[da Lewis takes off his shirt, traccia numero 8 di Heartland di Owen Pallett, uscito nel gennaio 2010 su etichetta Domino]
foto da flickr.com, utente Gulfu, Diyaz on Steps
scritto da Alberto Lioy tra il 29 e il 31 marzo 2012
La luce del sole era bassa sotto la coltre di nuvole e la campagna mi lasciava in bocca quel sapore di acqua salata che il terreno suda quando non può respirare. Anch'io ero in apnea, a modo mio, petto in fuori, addominali tesi, potevo sentire il mio diaframma piegarsi sotto i bottoni della camicia mentre spostavo le cosce avanti passo dopo passo. La mano destra era stretta a pugno, la sinistra roteava su se stessa, le dita piegate che picchiettavano le une contro le altre. Tenere il tempo era qualcosa per cui non avevo talento, per cui ero obbligato a farlo a caso. Avevo il sospetto che la mia andatura, che mai seguiva una linea retta fosse individuabile persino dalle orme sull'asfalto, ma non potevo e non volevo sincerarmene. Avrei dovuto chiedere a Giuseppe, era il tipo di cosa che lui sapeva, anche se non riguardava i cavalli. Riguardava le strade e questo era più di quanto bastasse.
Arrivai in negozio dieci minuti in anticipo, così ebbi il tempo di spazzare il marciapiede davanti. Sputai sul pavimento nonostante ci fosse più fango che polvere, per mescolarmi con il suolo su cui mi sarei tanto volentieri disteso. Una volta mi ci aveva trovato una zia, ma mi aveva lasciato stare.
Servii i clienti per tutta la mattina, senza smettere un momento. Più lungo, più corto, più colore, un fiocco, un bottone, un inserto, una piccola cerniera invisibile per nascondere il gonfiore sulla pancia.
A pranzo presi due patate ripiene di formaggio dal banchetto che passava, chiamandolo con un fischio e restai fuori a mangiarle in strada, così che se qualcuno voleva entrare poteva aspettare fuori con me. Feci un passo avanti mentre cercavo di non scottarmi, affinché la mia testa sporgesse fuori dal balcone della casa e io potessi sentire la coltre di pioggia posarsi su ogni mio morso, e potessi poi scuoterla dalla testa. Ci soffiavo sopra in modo esagerato, cercando di fare rumore, più che potevo. Ogni tanto ero obbligato a piegare il collo in avanti, o ad aggiustare la mia postura su un fianco. Le reni mi dolevano come non mai, sempre in piedi, come una bestia. Avrei lavorato volentieri seduto, ma non si poteva, era poco professionale.
Il pomeriggio sembrò infinito, e le lancette dell'orologio a muro di tanto in tanto tremavano tra un minuto e l'altro, anche loro avevano paura di dirsi che la cosa più spaventosa di un'attesa è che è destinata a terminare. Decisi che avrei chiuso un quarto d'ora in anticipo. Era un buon compromesso, e poi ero arrivato prima alla mattina. Ascoltai il rumore delle tapparelle pregando a ogni discesa verso il basso che non fosse il momento di assistere a un incastro. La settimana prima, quando mi si era fulminata una lampadina in casa, prima avevo riso forte, e poi avevo bestemmiato, ancora più forte, come un pazzo che gioca la sua commedia davanti a dei mobili come spettatori. Ero pronto a fare lo stesso, anche in mezzo alla via centrale del paese. La mia reputazione di ragazzo tranquillo forse ne avrebbe beneficiato. La gente diffida della gente con poche sfaccettature, i personaggi coerenti sono noiosi dopo poche righe.
Nel piazzale della stazione i taxi mi guardarono dietro le loro livree gialle a scacchi, come delle vecchie prostitute tirate a lucido per il primo cliente di giornata, ma non mi andava di farmi portare in groppa. Già stavo sul mio destriero tutto il giorno, mi ripetevo sempre, riferendomi all'unico cavallo che avessi mai posseduto, quello dei pantaloni. Avessi potuto, avrei fatto il mio mestiere taglia e cuci con le vergogne all'aria, ma dubito che le signore avrebbero apprezzato.
Passando davanti ad un fioraio mi fermai a prendere delle margherite talmente grosse che sarebbe valsa la pena di farle in insalata con un filo di aceto balsamico e di limone. Avevano dei colori un po' fané, ma in fin dei conti essere fuorimoda era uno dei pochi modi di essere originali che fossero rimasti, come gridava già da qualche anno la mia giacca viola.
La camicia mi grattava sul petto e le fitte al fianco andavano a ritmo con ogni mio passo in uno costante stantuffare di nervi vene muscoli e anima grama tanto che faticavo a tenerli compressi sotto la pelle. Certe notti, nel dormiveglia dei doloranti, fantasticavo di andare in cucina, prendere il coltello più affilato e cavarmi il rene dal fianco, anche se non era lui la causa, anche se avessi poi scoperto che era solo uno strappo muscolare. Ero certo che dopo sarei stato meglio. Guardando in fondo alla via vidi la scogliera avvicinarsi e pensai ancora una volta all'onda. Camminando su quel fondo del mare di pianura, qualcuno da bambino mi aveva detto che un giorno sarebbe arrivata una grande onda e avrebbe riportato il mare lì dove doveva stare e avrebbe riportato la scarpata che separava le due parti del villaggio ad essere una scogliera di mare. Da allora in poi avevo chiamato gli abitanti di sopra “emersi”, dando per scontato che noialtri fossimo per natura destinati ad essere i sommersi.
Quando la strada, dipanandosi di curva in curva, mi portò in cima, era ormai buio, e la luce dei lampioni formava coni di gocce d'acqua. I miei fiori parevano coperti di rugiada ed erano già un po' sgualciti, come se qualcuno li avesse sfregati tra le dita. Non ero stato io, ad ogni modo. Sotto la grande tettoia, una luce al neon illuminava quell'ammasso di materia tanto grande da parere uno scherzo. Mentre mi avvicinavo, ecco apparire mani piedi, volti, orme.
Lei era lì, in piedi, sfruttando il meglio del suo metro e settanta, la sua salute resa evidente dallo slancio delle gambe verso l'alto mentre si spostava e passava lo scalpello come mitraglia a sbozzare un altro angolo di pieno, per dargli la leggerezza del vuoto.
“Un giorno farai una città intera, di persone di pietra, e nessuno potrà dire la differenza.”
La mia voce era risuonata con un'eco ridicolo sotto la tettoia, e le aveva già rubato un sorriso. Mentre mi chiedevo che cosa l'avesse fatta sorridere, lei mi rimandò indietro con un gesto della mano, e intanto disse
“Sono sopravvalutata, come tutti gli artisti che vengono pagati. La gente pensa che siamo migliori degli altri, ma in realtà non è vero.”
“Posso fermarmi, adesso?” chiesi, mentre indietreggiavo.
“No, aspetta, ho fatto le prove oggi, ti devi fermare dove c'è quel grosso ramo e dirmi.”
Raccolse il neon da terra, lo avvicinò alla pelle e al cuore della pietra, per farmi vedere le sue ferite, le sue offese. Io ero tanto stanco da sentirmi come se lei stesse illuminando me, il mio volto di cartapesta, la mia mano tremante, le mie spalle rigide, le mie ginocchia offese. Stavo riprendendo fiato, avevo a malapena la forza di parlare, e guardare si rivelò un'impresa sovraumana.
“Dopo, te lo dico dopo. Dammi tempo.” dissi alzando le mani in segno di resa.
Lei rise
“Meglio se stai attento, che tra tra poco ti cade l'insalata.”
Io abbassai le mani e mi avvicinai di nuovo.
“Anche tu li vuoi mangiare? Dai, tieni.” strappai un petalo azzurro e glielo porsi.
“Così dalle tue dita? Dimmi, ti sei lavato le mani, almeno?”
“Dove?” feci, lasciando che il petalo andasse volteggiando a terra.
Lei non rispose, ma andò ancora a cercare, dietro il tavolo da lavoro.
“Vino bianco, complimenti.” dissi guardando la bottiglia.
“Non ti aspettare niente di che, il signore che l'ha portato era un rozzo di campagna, senza buone maniere.”
“Magari voleva qualcosa in cambio.”
“Tutti vogliono qualcosa in cambio, ma non per questo bisogna darglielo.”
“Cos'é? Chi merita, ha?”
Lei rise, mentre inghiottiva il vino dalla bottiglia.
“Mica tanto se uno ci pensa a posteriori, chi merita piglia poco.”
“Tutto a caso, insomma.” mentre lei mi passava la bottiglia.
“Ma no, adesso non esageriamo, fortuna, caso, merito, spirito della giornata, cose così.”
“A me piace.” dissi.
“Ti piace il caso? Non l'avrei detto. Sei un fatalista, allora.””
“Parlavo del vino. Dire che mi piace il caso sarebbe una contraddizione in termini.”
“Perchè? Dove sta la contraddizione?”
“Se mi piace, vuol dire che non era un caso.”
“E allora, cosa mi dici di questa questa bestia che sta venendo fuori qui dietro, ti piace o è un caso?”
Io scossi la testa e presi a guardarla negli occhi. Eravamo seduti a terra, con la bottiglia di vino in mezzo.
“Non ho ancora deciso. Ma mi sta bene.”
“A me comincia a dar sui nervi. Me ne hanno già parlato in troppi, e non l'ho ancora nemmeno finita. Mi fanno tutti i complimenti di come il marmo libera questi uomini, questi corpi. A parte che non è marmo, se no ci metterei una vita, ma ad ogni colpo che gli dò, mi sembra che sarebbe stato meglio lasciare che la pietra se ne stesse a riposare. È tutto una tale follia.”
Non avevo la minima idea su se condividessi quello che lei diceva o no. Sapevo solo che i miei muscoli e le mie ossa non mi avevano ancora abbandonato, e neanche il mio fine, la voglia di qualcosa che mi tenesse vivo. In quel momento ce l'avevo lì davanti a me, e mi sorrideva. Tante cose avrei voluto chiederle, quanto ti fermi, dormirai di nuovo da me questa sera, sei davvero così straordinaria come ti vedo io o fai finta, ma sapevo di non potere. Conoscevo le regole del gioco, e sapevo quanto fosse crudele. Sapevo di quei momenti di tortura in cui il cuore non riesce a respirare e il cervello dispera una soluzione. Sarebbe bastato, un “ma tu sei ancora tu? perchè, io, da parte mia, sono certo di essere ancora io.” Era passato un giorno soltanto, ma ora sembrava lungo una vita intera, come se lei fosse stata mia moglie in una vita precedente e avessi la possibilità di stare con lei anche in questa.
“Croissant alla marmellata.” esalai.
“Cosa?” disse lei, che stava parlando di tutt'altro “Allora non mi stavi ascoltando.”
“Invece sì. Comunque, croissant alla marmellata.”
“Buoni.” disse lei.
“Domani mattina alle sette li metto in forno, alle sette e un quarto sono pronti.”
Lei restò in silenzio e io pure, mentre l'aria fischiava in un'alito di vento per farci da contrappunto.
Mi alzai in piedi e feci qualche passo verso la scogliera guardando di sotto. Nell'oscurità i punti delle case dove ero cresciuto mi sembrarono le luci dei pescatori che incontrano la vita nascosta dentro le notti oceaniche. Il vento e l'umido agitavano i miei capelli mentre i miei occhi si chiudevano per la stanchezza del giorno. Le mie orecchie si irrigidirono di colpo nell'udire i suoi passi, il fruscio delle due gambe dei pantaloni l'una contro l'altra, il contatto tra l'aria e il suo viso mi sembrava più tangibile di tutte le sculture del mondo, nella mia immaginazione.
Inatteso, violento, arrivò il dolore nella schiena. Di colpo mi sentii pugnalato, ucciso, contrassi in smorfia di dolore occhi e baffi, bocca e naso, e cercai con tutte le forze di non svenire.
Fu il fatto che quel dolore venisse da un suo abbraccio che mi impedì di crollare sulle ginocchia. Il suo odore di sudore e terra, e il calore del suo viso appoggiato sulla mia spalla, rimisero in rotta verso casa il mio cuore. Era tutto quello che sapevo.
Mi girai sui tacchi e le diedi un bacio.
"I am overrated," said the sculptress to the sea.
"I've been praised for all the ways the marble leaves the man,
And I was wrong to try and free him."
And as for me, I am a vector, I am muscle, I am bone.
The sun upon my shoulders and the horse between my legs,
This is all I know.
[da Lewis takes off his shirt, traccia numero 8 di Heartland di Owen Pallett, uscito nel gennaio 2010 su etichetta Domino]
foto da flickr.com, utente Gulfu, Diyaz on Steps
scritto da Alberto Lioy tra il 29 e il 31 marzo 2012