In questa foto c'è una ragazza che ha la tua stessa aria. Dev'essere di famiglia, perché ritrovo le lentiggini appoggiate ai lati del naso, con leggerezza, come un accessorio grazioso. Tua nonna probabilmente, abbracciata a un ragazzo.
In questa soffitta ci sono troppe cose, è impossibile vederle tutte. Capire poi perchè tu ti sia ritirata qui, per dormire in quella branda che se non l'hanno rosa i topi è stato il tempo, tu che ami dormire coi cuscini alti. Cosa ti ha spinto a venire qui?
Ho voglia di parlare con te, di condividere le cose che ho visto. Ho visto altre ragazze con il tuo stesso sguardo, con quella proporzione perfetta tra naso e bocca, con quel filo di pelo sul labbro superiore, che prima di incontrarti credevo avessero solo le ragazze del Mediterraneo, non quelle delle Alpi. Chi mi ha aperto la casa è stato gentile, è bastato mostrare una foto di noi due insieme. Tutti dicono che siamo una bella coppia. Io ci credo a questa cosa, che siamo fatti per stare insieme. Tu mi fai stare bene, non è una fesseria.
Siccome non ho un altro posto dove stare, sono andato a comprare qualcosa per cenare. Al supermarket una ragazza con una enorme chioma di capelli neri ha passato il mio cartone di latte e i biscotti al cioccolato con un sorriso. In questo posto la gente sorride, chi l'avrebbe mai detto? Forse non è di qua, mi sono detto, ma c'è un limite nel credere agli stereotipi.
Mi sono messo sul terrazzo del piano di sopra, con il mio latte caldo dentro cui ho messo il miele scuro che c'è in cucina. I biscotti li ho tenuti per quando non riuscirò a dormire. Ti immagino stupita, io che non dormo è una cosa strana, è vero, prendo sempre sonno dopo cinque minuti.
Non ti vedo da un mese. Non pensavo che potesse essere così lungo, io che gli anni li ho lasciati passar via senza farci troppo caso.
Mi manchi.
Mi manca il tuo sorriso, la tua coda di cavallo, le tue lamentele per quando la cucina non è pulita e vuoi andare a mangiar fuori, le tue risate per le facce che faccio mentre mi rado, il tuo profumo alle erbe aromatiche, la prima cosa che respiro la mattina.
Fa troppo freddo per restare fuori, così faccio un altro giro per la casa. Strano non essere mai stato qui e venirci la prima volta senza di te, ma non mi sento un ladro, e neanche un intruso, sarà perché un po' sono parte della tua famiglia anche io?
Voglio credere di sì.
Chi ti ha vista passare qualche giorno fa dice che avevi pianto. A me, che non ti avevo visto versare nemmeno una lacrima, scende una tristezza che non riesco a scacciare. La sensazione è che tu stia scappando da me, ma chi si nasconde, di solito vuol essere trovato, ti ho solo dato un po' di vantaggio. Perché lo sto facendo? Perché sento che è l'unica cosa che posso fare, anche se tu dovessi mandarmi via, anche se fosse l'ultima volta che ti vedo. Per ora non ci voglio nemmeno pensare. Tu ci sei, sei viva, e io e te siamo ancora una cosa sola, una cosa grande, che pulsa di energia, di calore, di voglia di fare.
Ho tirato fuori da un armadio dei vecchi maglioni che forse sono di tuo nonno, per togliermi di dosso il sudore di ore di cammino. Ho fatto penitenza, sai? Dopo che si è fermato il treno, il resto l'ho fatto a piedi, senza autostop, senza autobus. La sensazione di star pagando una colpa non mia resta, ma ugualmente sento una responsabilità. Anche se non capisco dove, sono responsabile per tutto questo, forse solo perché sono un uomo.
Il maglione di tuo nonno mi sta a pennello, forse è un segno che devo perdere peso, forse è solo che non poteva essere altrimenti. Sono geloso di quel tipo che sta nella foto con tua nonna. Sì, me la sono portata dietro, non l'ho voluta lasciare in soffitta. Non è tuo nonno, e ha l'aria di qualcuno che ho già visto, ma a capire chi potrebbe essere ci diventerei vecchio anch'io.
Raccolgo dalla mensola la tazza di latte ormai tiepido e gli dò un sorso. Quanto tempo era che non bevevo una tazza di latte? Tu non lo digerisci, ma io devo essere più libero. Smetto di girovagare e mi siedo sul divano, con l'abat jour accesa. I quadri, la polvere, il tappeto che ho disteso sul pavimento di legno, troppo nudo e ruvido senza. Non è una casa dove stare da soli. Le camere da letto le ho lasciate chiuse, sarebbe stato davvero troppo vedere i letti di una volta, con le loro intimità storiche, e la loro freddezza montana.
A che cosa giro intorno? C'è una storia che non mi voglio raccontare, che non voglio dire a me, nè a te. C'è la storia di questo grosso pasticcio, di questo odio, di questa gelosia. Io penso che tu lo sai dove sono colpevole io e dove non lo sono. Sono colpevole di non essere cambiato, non sono colpevole di quelle accuse gravi, pesanti, fastidiose, che ci sono cadute addosso.
Penso alla storia della mia famiglia, alle separazioni consumate, a quelle tenute dentro, su cui si è passati sopra, come a usare il ferro da stiro per cicatrizzare una ferita da taglio. Non è così che si cura, la cicatrice resta profonda dentro e sulla pelle, anche se si può nascondere sotto la manica di un vestito.
Il problema è che uno che dice, “ragiona, io non ti farei mai del male”, mente sempre, a prescindere. Perché due persone che stanno vicine si fanno sempre un po' male a vicenda, e di cose da rinfacciare uno ne trova sempre, persino ai santi. I santi sono noiosi, la noia è una colpa, ecco fatto, trovata una anche ai santi. Ora ti arrabbieresti perché scherzo su delle cose serie, ma non mi resta nient'altro, e non è che fosse chissà che scherzo.
Vorrei che qualcuno suonasse alla porta. Che non lasciasse andare il campanello per dieci secondi e poi si mettesse a battere fino a farmi andare il cuore a centotrenta. Che mi facesse alzare di scatto dalla poltrona e mi facesse gridare che sto arrivando con voce stridula di ansia. Ugualmente vorrei che continuasse a battere senza smettere un secondo, come in preda a un raptus. Se succedesse, saprei che non sei tu. Tu quando arriverai, non farai rumore, ti troverò al mattino come la rugiada, fresca e triste di lacrime aggrappate al viso.
Disteso sul divano continuo a immaginare. Di sperare di dover aprire trafelato e trovare dall'altra parte un poliziotto, e magari anche due o tre vicini, con aria minacciosa e parole grosse. Io mi farei piccolo piccolo e cercherei di spiegare cosa faccio lì, che le chiavi me le ha date un'altra vicina, in quel momento starebbe ignara dentro casa sua. Loro insisterebbero, direbbero che non è casa mia. Io tirerei fuori la nostra fotografia, quella che porto sempre con me, e loro con capirebbero, direbbero che cosa c'entra. Io con un filo di voce direi che tu sei la mia fidanzata, che ci dobbiamo sposare presto.
Allora si calmerebbero, un vicino direbbe di ricordarsi di te, e anche di me, anche se non mi ha mai visto prima. Balbetterebbero delle scuse, il poliziotto si schiarirebbe la voce per farsi coraggio, e poi farebbe cenno di andare.
Allora io li fermerei. Loro si volterebbero e io gli offrirei del té, del caffé, degli amari di tuo nonno. Dopo qualche secondo loro accetterebbero, non avendo niente di meglio da fare. Li farei sedere in salotto, preparerei i bicchieri e poi mi metterei a raccontare la storia che mi porto dentro.
C'è una ragazza.
Una ragazza che non sei tu.
Chi è non ha importanza.
Forse è una mia collega di lavoro, forse è un'amica di quando facevo le medie, forse l'ho conosciuta in vacanza l'anno prima di mettermi con te.
Tu non l'hai mai sentita nominare prima.
Ci ha mandato una lettera.
In casa nostra, dove viviamo io e te, in città.
Io non ho visto questa lettera, l'hai vista solo tu.
Ancora adesso l'ho vista solo nelle tue mani, tu l'hai portata via con te.
Ancora non so esattamente che cosa c'è scritto.
Lo posso immaginare, ma non lo so.
Ovviamente so anche perché la lettera è arrivata.
So che è anche colpa mia.
Ma che quando qualcuno rompe le regole, ci vanno sempre di mezzo degli innocenti.
È quello che ho detto a te.
Che lei è una persona che non sta bene.
Che ti amo.
Ti ho detto che ti amo.
Tu non hai voluto sentire, non l'hai voluto sapere che ti amo.
Non hai voluto guardarti dentro, per vedere cosa c'era dentro.
Hai avuto paura.
Hai letto la paura nei miei occhi.
Io ho letto i tuoi pensieri che dicevano, “questa non si perdona, a prescindere”.
A prescindere non bisognerebbe mai fare niente di niente.
Le decisioni a caldo sono sempre le peggiori.
Non ci sono più le mezze stagioni.
A questo punto farei una pausa. Loro, che sono in tre, o forse in quattro, mi guarderebbero. Cercherebbero di capire se sono colpevole, mi metterebbero sotto la loro lente di ingrandimento, userebbero il sesto senso della gente di paese, che qualche volta ci azzecca. Leggerei comprensione negli occhi del poliziotto, che forse ha un'amante. Leggerei rimprovero negli occhi di una vecchia signora, che, con gli “a prescindere” ci ha campato una vita intera e non è che cambierà proprio ora. Leggerei tristezza negli occhi di suo marito, ed è a quella tristezza che mi attaccherei per continuare a raccontare.
Non mi hai mandato via.
Sei andata via tu, durante la notte.
Mentre io dormivo.
Probabilmente schifata da come io potessi dormire.
Quando sono troppo nervoso, il mio corpo si addormenta, altrimenti mi verrebbe un infarto.
Schifata da come potesse non rimordermi la coscienza per quello che avevo fatto.
Ma io non ho fatto niente.
Non ho fatto proprio proprio niente.
Alzerei i palmi delle mani davanti a me. Mi alzerei anche in piedi davanti al mio pubblico. Farei un giro su me stesso, non c'è trucco non c'è inganno. Allora qualcuno chiederebbe, per forza di cose. Chiederebbe quello che chiunque vorrebbe sapere. Chiederebbe se c'è mai stato qualcosa. Se davvero io e quell'altra non siamo niente. Io sorriderei triste e scuoterei la testa.
La mia donna sei tu.
Da quando ti ho conosciuta ho fatto l'amore solo con te.
Altro non so dire.
Ti amo.
Il pensiero di stare senza di te, è paragonabile a una vedovanza.
Metterò il nero ogni giorno senza te.
Il nero dentro l'ho già, il nero fuori.
Smetterò di bere, ho già smesso di fumare.
Qualsiasi cosa.
Potrei anche provare a raccontarti tutta la storia, da capo a fine.
Ogni dettaglio, ogni particolare di come io sia innocente perché il fatto non sussiste.
Potrei raccontarti che nella vita si fanno delle scelte e che io ho scelto te.
Potrei altrettanto dirti che non credo che nella vita possano esistere cose eterne.
Solo la morte.
Ma che anche se non esistono cose eterne io in te e me ci credo.
In che cosa credi tu, non lo posso sapere.
A quel punto congederei i miei cari ospiti con grandi gesti da padrone di casa affettuoso e stanco. Loro capirebbero che è ora di andare. Non resterebbero in questo salotto grande e vuoto. Qualcuno passando mi darebbe una pacca sulla spalla, ma non farei in tempo a capire chi. Tutti uscirebbero dalla porta senza voltarsi. D'altra parte non è la loro storia, è la mia, la nostra.
Ora che sono qui disteso sul divano, dopo aver convocato questo tribunale immaginario e averlo lasciato andare, sono qui, con la coscienza pulita, e piena di lacrime.
Mi dispiace della confidenza accordata a qualcuno che non sei tu.
Mi dispiace dell'intimità che purtroppo non si può condividere fuori da due.
Dicono che tre è il numero perfetto.
Io ci credo poco.
Un'altra cosa che dicono è che ascoltare è il contrario di parlare.
Si sbagliano.
Il contrario di parlare è aspettare.
And this picture’s got a woman who looks like you
and a guy who looks just like someone I’ve seen.
When it turns out, I hope that it turns out
I hope that it turns out the way that you dreamed.
[da Song about a star, traccia numero 9 di Down the river of golden dreams degli Okkervil River, uscito nel settembre 2003 su etichetta Jagjaguwar]
foto da flickr.com, utente Easpen Faustad, "Inside Norwegian Cottage"
scritto da Alberto Lioy tra il 16 e il 19 maggio 2013
and a guy who looks just like someone I’ve seen.
When it turns out, I hope that it turns out
I hope that it turns out the way that you dreamed.
[da Song about a star, traccia numero 9 di Down the river of golden dreams degli Okkervil River, uscito nel settembre 2003 su etichetta Jagjaguwar]
foto da flickr.com, utente Easpen Faustad, "Inside Norwegian Cottage"
scritto da Alberto Lioy tra il 16 e il 19 maggio 2013